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1° maggio 1943

Caro nonno: di nascosto, in montagna


di Cristina Podestà

Era un uomo ancora giovane. Certo non più un ragazzo ma ancora in gamba per correre su per le sue montagne, le Alpi Apuane, in quei giorni di fine aprile del 1943.
Doveva nascondersi assolutamente. C’era stato qualcuno che aveva fatto la spia; lui e i suoi compagni volevano festeggiare il 1° maggio! Lo aveva sempre fatto. Anche quando era un fanciullo. E anche dopo, quando era arrivato il duce.
Bisognava ricordarli con riguardo e rispetto quegli operai di Chicago del 1886, che combatterono e morirono in 11 nello scontro con la polizia. Suo padre gli aveva sempre raccontato di questa tragedia, e di quando era diventata festa ufficiale in Europa nel 1889, lui neanche nato, e introdotta in Italia due anni dopo. 
Ma durante il ventennio fascista era stata abolita e accorpata al Natale di Roma, 21 aprile, e veniva genericamente definita festa del lavoro. Ma Marco e i suoi amici antifascisti prima, partigiani poi, non avevano mai smesso di festeggiare a modo loro. Si incontravano in montagna di nascosto, fazzoletti rossi come il sangue al collo, un garofano rosso rubato in qualche giardino e la speranza di un domani migliore in cuore. 
Anche quell’anno volevano fare lo stesso, ma qualcuno aveva fatto una soffiata. Magari era un parente, un “amico” che era a conoscenza di quel loro rituale, chissà. E allora lui stava correndo ad avvisare i compagni che avrebbero dovuto cambiare il luogo di ritrovo.
Quelli, in cima al monte, erano già pronti quel giorno del 30 aprile. Alcuni avevano neanche 20 anni, avevano gridato “Il destino poi ci guiderà” e si erano portati avanti per i viottoli erbosi. Quelli in marcia avevano tutti una bandiera rossa, erano poco più che bambini e confidavano in quelli come lui e pochi altri, più anziani, che li avrebbero raggiunti più tardi, dopo avere sistemato le famiglie. 
Correva Marco e portava un peso più grande di lui. Aveva scorte di cibo per tutti, per poter dare loro una sicurezza nella dignità del rispetto della ricorrenza. Era appesantito, faticava, aveva il fiatone, ma non si arrendeva. I ragazzi lo stavano aspettando timorosi e ansiosi, per gioire poi tutti insieme della celebrazione. 
Di corsa, nella sera, si fece più vicino al rifugio. Erano tanti convenuti là, da località vicine, tutti il sorriso sul volto teso, fieri e decisi a portare a termine il loro ideale. Appena li vide da lontano segnalò con una torcia la sua presenza e corsero in un paio a dargli una mano. Parlava concitato.
Scappate, scappiamo. E allora a perdifiato tra i monti, rovi tra i capelli, le mani sanguinanti dopo avere strappato erbacce rami, fronde, frasche. Correvano tutti in quella notte del 30 aprile che stava per cedere il passo al giorno. Si rifugiarono più in alto e verso la Versilia. 
Si fermarono solo in piena mattina, con l’arsura in gola, le lacrime negli occhi e le vesti lacerate. Però erano tutti lì, orgogliosi e vincenti quel 1 maggio del ‘43, a festeggiare la loro vittoria contro il male e l’odio fascista. 
Fino a sera cantarono, bevvero, chiacchierarono del loro futuro, degli amici perduti, del tempo che sarebbe venuto, della speranza di una fine imminente del regime. E, a sera, riposati o stanchi, qualcuno ubriaco, qualche altro un po’ mesto, si rilassarono tutti col cuore contento per avere realizzato il loro piccolo sogno per la libertà e la giustizia.

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