Canova, Ritratto di Paolina Borghese, 1808 (Galleria Borghese, Roma) |
di Marina Zinzani
Ammirare una statua di Antonio Canova è come catturare un frammento di vita del passato. In quella statua è conservata la grazia, la mano magnifica dell’artista, il tentativo, riuscito in modo eccelso, di rappresentare la bellezza anche in una veste scolpita nel marmo ma così delicata che sembra un velo agitato dal vento.
Si visita un museo, si cammina fra opere del passato, ognuna racconta una storia, il marmo parla, il colore su una tela parla, le pennellate sono la fotografia di un momento lontano, di una storia, di una sofferenza, di un innamoramento, di una follia. E quei volti dipinti sembrano sussurrare, volerci parlare, volti enigmatici, pensierosi, ne percepiamo l’anima, attraverso un tocco di colore negli occhi, un’ombra sul viso, una luce che li sfiora in una stanza.
È uno sprazzo di vita che si avverte nell’aria, è come una fiammella che si accende e per un attimo ci illumina.
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