di Giovanna
Vannini
Trattengo il respiro, potrebbe andarsene ancora. Lo
ha sempre fatto. Per quale motivo dovrebbe smettere? Ho corrotto il cameriere
ai piani, mi sono intrufolato nella stanza, ora mi beo.
Quando aprirà le palpebre non mi vedrà subito. Lei dorme profondo, ha risvegli lenti, mette a fuoco molto dopo. Se appoggio le labbra sulla tazzina la prenderò con me. Ingoio, a rallentatore mi sgranchisco. Il mattino sta entrando nella camera. Dovrei alzarmi, abbassare l’avvolgibile, accostare le tende. Perché all’infinito la penombra resti, la luce scappi.
Quando aprirà le palpebre non mi vedrà subito. Lei dorme profondo, ha risvegli lenti, mette a fuoco molto dopo. Se appoggio le labbra sulla tazzina la prenderò con me. Ingoio, a rallentatore mi sgranchisco. Il mattino sta entrando nella camera. Dovrei alzarmi, abbassare l’avvolgibile, accostare le tende. Perché all’infinito la penombra resti, la luce scappi.
Mi commuovo se penso alle sue linee sotto al
lenzuolo. Sono due anni, tre mesi e undici giorni che non le vedo. Non possono
che essere migliorate. I tramonti non la sfioriscono e la albe sempre la
rinnovano. Si gira, mugola, stropiccia il cuscino. Silenzio tutto, anche i
pensieri. Torno in me, non posso più stare, il gioco è finito. In fondo non
avrei parole, non saprei mettere insieme scuse. Solo rossore, banalità,
mutismo. Mi alzo, mi avvicino. Sono pazzo lo so, e allora
l’annuso. Stacco tre passi frettolosi fino alla porta, mi stoppo, mi calmo e
con gesti da ladro apro. Il corridoio è freddo.
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