Il successo del digitale nei referendum nasconde l’incapacità della politica di affrontare le questioni
(Angelo Perrone) Nella storia dei referendum, crescono i ricordi: non ci sono più banchetti agli angoli di strada, inviti a firmare i fogli di carta, frenetici e palpitanti appelli finali per raggiungere il quorum. Tutto superato. Le innovazioni trasformano quelle immagini in qualcosa di desueto, superato. Era così romantico, diventa folclore. Non dobbiamo forse abbandonare i vecchi schemi e dare spazio alla tecnologia?
Ora si segue la modernità, dunque serve velocità, come avviene in tutto il resto, nella vita privata, nell’accesso ai servizi, nello svolgimento di compiti di ogni genere.
Le firme possono essere raccolte in via telematica, a distanza, non serve recarsi di persona ai banchetti. Una procedura che produceva un enorme ingombro cartaceo. Che però comprendeva anche la partecipazione a dibattiti, momenti di incontro diretto e discussione. C’era il dialogo fitto tra le persone, il confronto delle idee, magari lo scontro, utile a decidere.
È bastato un emendamento alle norme di attuazione dei referendum, introdotto nella legge di conversione del decreto del 2021 su semplificazioni e Piano nazionale di resistenza e resilienza (Pnrr).
Grazie alla nuova normativa, si può partecipare all’iniziativa «mediante documento informatico, sottoscritto con firma elettronica qualificata». Non occorre autenticazione.
Rimangono invariate le regole generali, a cominciare dal numero di firme necessarie, immutate le norme sui controlli di legalità e ammissibilità.
Nonostante l’istituto sia rimasto il medesimo, tutto è diverso. Sono bastati pochi giorni per raccogliere e superare il quorum delle 500.000 firme per i referendum sulla legalizzazione della cannabis (art. 73 t.u.l.stup.) e sull’eutanasia (abrogazione dell’art. 579 c.p.). Mai avuta un’adesione così tempestiva e massiccia. Per alcuni, anche allarmante.
Il dato ha sollevato preoccupazioni e critiche. Ne è derivato un fiume di proposte per modificare i referendum, cambiando requisiti, modalità di svolgimento, controlli.
La prima impressione, forse a causa della tempistica, è quella di una reazione tesa a contrastare l’ondata dei referendum, ora che la firma digitale l’ha potenziata.
Si teme il diluvio, lo stravolgimento delle funzioni del parlamento, comunque i possibili brogli nella raccolta delle firme. Necessario arginare la tempesta prima che sia inarrestabile. Ma non c’è solo regressione, rifiuto del nuovo, difficoltà di adeguarsi.
Si affaccia l’ombra preoccupante di una dinamica politica basata sul “botta e risposta”. Alle leggi non gradite si risponde con un referendum (come è stato adombrato a proposito dei green pass). Senza far passare troppo tempo, rifletterci su.
Viene in mente che vi possa essere un rapporto (negativo) tra semplificazione delle procedure e qualità dell’opinione espressa. Il metodo precedente, più articolato, forse favoriva la responsabilità degli aderenti. Così come incrementava la riflessione, scoraggiando risposte impulsive ed emotive.
C’è sicuramente una correlazione tra procedura e risultato. La complessità spinge ad una maggiore ponderazione. Se si esce di casa e si va a cercare un banchetto da qualche parte, perdendo anche tempo, si suppone che lo si faccia perché si è maturato un convincimento.
Invece la semplicità di un click - nella frenesia di ogni giorno, in tanti automatismi - può diventare approssimazione. La velocità genera fretta e superficialità: non la migliore premessa per una scelta consapevole.
E tuttavia sarebbe ingiusto e pericoloso contrapporre la modernità alla riflessione, ricorrere al passato come sicuro ancoraggio contro deviazioni del presente, pure possibili. La questione va oltre la procedura ed investe proprio la ragion d’essere del referendum, i suoi scopi e le sue (limitate) potenzialità.
Certo serve una cadenza più lenta e ponderata. Occorre un “distacco emotivo” dall’approvazione della legge prima di rimetterci mano. L’immediatezza non è buona consigliera. È essenziale la possibilità di riflettere. Soprattutto, spesso, alla fine di ogni considerazione, è impossibile dare un taglio netto, senza sfumature.
Solo per rimanere alla cannabis e all’eutanasia, le ulteriori tappe delle proposte di referendum difficilmente potranno essere altrettanto veloci. Sull’ammissibilità di entrambe, si prevedono delle condizioni. Tecnicamente sarà difficile definirle con la semplice abrogazione delle norme (attraverso i referendum). Serviranno nuove discipline, altre regole.
L’istituto del referendum ha bisogno di rivisitazione per adeguarlo ai tempi. Per esempio, quanto al numero di firme necessarie, perché è cambiata la proporzione rispetto alla popolazione, aumentata dal 1946. E ciò a prescindere dalle preoccupazioni per la “bolla” delle firme digitali, e dall’intento strumentale di frenarne l’ondata.
Però il tema centrale, purtroppo ricorrente davanti a questioni importanti, è l’inerzia della politica e la sua abdicazione al ruolo di adeguamento dell’ordinamento. Per quanto la popolazione possa essere chiamata a dire la sua, è palese che la più parte dei problemi non possa essere affrontata con la secca alternativa tra conservazione e abrogazione di una norma.
Il referendum, salvo casi particolari, si mostra inadeguato. Servono piuttosto normative articolate e necessariamente complesse. Ma è proprio sulla progettazione che si avverte la colpevole latitanza della politica. Per questo il referendum appare una sorta di ultima spiaggia, in sé però insufficiente per colmare le lacune del parlamento.
La democrazia non può affidare la soluzione di problemi complessi, come cannabis e eutanasia, alla conta dei sì e dei no.
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