* (“Penso e scrivo ancora testardamente. Il luogo dove attualmente risiedo s'impone alla mia riflessione emotiva; questa si fa strada verso una parola che vorrebbe essere qualcosa di più elaborato rispetto al pianto nostalgico per un eden perduto. E rispetto a un dire cauto verso il sorriso di chi si esalta di dar voce al bello assoluto. Altresì rivendico la distanza da una nota spese o da un promemoria per gli acquisti.”)
Vibra di cromo il giallo euclideo
indosso alle scarpate vergini.
Severe fioriture – albini grumi –
vestono gli ulivi di canizie
che il vento – pettinando - depone
sulle zolle già rasate e smosse
dentro recinti riassestati
a scongiuro di fiammifere intenzioni.
Verzicando in silenzio
spiattellano alla precocità
della calura i loro pampini dentati
le vigne in parata sulle zolle -
d’ogni altro stelo ossessivamente ripulite -
aleggiano come ombrelli
i loro palmi tra le spire
dei cirri e su corimbi neonati
che già cullano umorali eventi.
Immensi e sonoramente atavici
sfilano nel vespro i greggi:
smagrite perché di vello
hanno i pastori denudato le bestie -
lunghi musi penitenti
nel saio assottigliato
color dell’acqua sporca.
Dimessa veste conviene
forse a questa stasi: covato
“en plaine air” il tramenio della fatica
si spinge l’occhio esoso al frutto
che un poco sguscia dall’ambigua
digitalità di Crono e molto oscilla
sulla stadera indecifrabile di Ade.
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