di Giorgia Deidda
Non sono un albero con foglie piene;
mi manca la linfa vitale.
Assomiglio più a certi alberi smagriti e dimenticati
che traggono nutrimento dalla terra asciutta,
cercando di guardare lontano verso le stelle
una depersonalizzazione da mancanza
scritta a caratteri brucianti, senza significato.
Allora io e la luna siamo diventate confidenti,
e tutto sembra ruotarci attorno, tutte le cose
che dovevano esistere
dissolte nella totale mancanza d’attenzione,
e non mi rimane altra parola che ossigeno,
da donare al cielo
e non mi rimane altro segno che l’avvicendarsi
del mio ramo al blu
crescendo per amore più che per nutrimento
perché il cielo per me era cosa meravigliosa
e io non potetti
che crescere di voglia d’assomigliargli.
Così mi feci alta e sempre più rassomigliante
a quel contenuto
bluastro e pallido di giorno, e i miei fiori diventavano
stelle minuscole
ed odorose, ognuna più colorata,
ed io mi facevo sempre più curva a causa della mia altezza
che tutti i miei frutti caddero a terra e persi tutto ciò che avevo.
Livida di rabbia mi accasciai sul suolo e guardai la
maestosità di ciò che avevo creato,
soccombuto dal peso dell’invidia,
crollato sotto il peso della non accettazione.
E rimasi stesa a guardare il cielo, più alta di tutti,
finalmente io, circondata dalle mie creature immobili,
a rimirare ciò che più avevo amato,
contenuta nella mia essenza, disgiunta dal cielo
ma più chiaro e luminoso di sempre.
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