Alfie Evans, il bambino inglese morto dopo che i tribunali hanno deciso di staccare la spina contro
la volontà dei genitori. Qual è il “miglior interesse” di un
figlio malato?
(ap *)
Alfie
Evans è volato via di notte insieme a mille palloncini colorati lanciati in
cielo dai tanti che hanno seguito ammutoliti la sua strenua lotta per
sopravvivere e che hanno voluto così testimoniare il loro affetto verso il bimbo
di nemmeno due anni vittima di una malattia rara e senza cura che gli aveva
consumato gli organi vitali senza dargli scampo alcuno.
Ha
resistito cinque giorni privo della ventilazione artificiale, dopo che, per ordine
dei giudici inglesi, erano state staccate le macchine che lo tenevano in
vita, poi il “piccolo gladiatore”, come lo hanno definito il padre Tom e la
madre Kate, ha cessato di vivere nell’ospedale Halder Hey di Liverpool dove era
ricoverato.
Una
lunga battaglia, quella degli Evans, contro i medici che hanno giudicato
“inumana” l’ipotesi di tenere in vita quel bambino senza speranze sollecitando
l’interruzione delle terapie e soprattutto contro la giustizia britannica che
ha accolto le richieste dell’ospedale sentenziando che fosse nel “miglior
interesse” del bambino distaccare le macchine che lo tenevano
artificialmente in vita.
Un
caso che ricalca in pieno un’altra vicenda clamorosa, quella del connazionale
Charlie Gard, 11 mesi, morto nel 2017 al termine di una battaglia legale
condotta dai genitori contro gli ospedali e i tribunali inglesi.
Anche
in quest’ultima vicenda sono stati inutili i ricorsi dei genitori di Alfie, gli
appelli di papa Francesco, le sollecitazioni della comunità internazionale e le
iniziative del nostro governo, che, concedendo la cittadinanza italiana al piccolo
Alfie, ha cercato di favorire il trasferimento del bimbo presso l’ospedale
romano del Bambin Gesù, per proseguire la cura del bambino.
Ha
“vinto” la giustizia inglese dunque ed il caso si è apparentemente concluso,
lasciando tuttavia aperti inquietanti interrogativi, sia sui limiti della
scienza nel trattamento delle malattie incurabili (fino a che punto insistere?)
sia ancor più sull’intervento delle autorità mediche e giudiziarie nei delicatissimi
rapporti tra genitori e figli.
Le quattro
sintetiche pagine con le quali l’alta corte inglese ha stabilito che fosse
opportuno staccare la spina delle macchine che tenevano in vita il piccolo
Alfie si fondano tutte sulla parola chiave del “best interest” del bimbo dopo l’unanime
giudizio medico secondo cui il cervello di Alfie era quasi totalmente distrutto
e non vi erano speranze di miglioramento. Valutazione decisiva per i giudici
rispetto alla volontà dei genitori di tenere comunque in vita il bimbo e di
prendere altre decisioni che lo riguardassero, come quella di trasferire a casa
il figlio, oppure di portarlo altrove per tentare altre cure o iniziative.
A
parte il paradosso di considerare più favorevole al bambino un trattamento che
ne provoca la morte, l’aspetto rilevante di questa vicenda sta nel fatto che è
l’autorità pubblica, non la famiglia, a porsi come l’interprete decisivo
dell’interesse del soggetto malato e in definitiva l’arbitro del suo destino di
vita.
I
giudici inglesi infatti, pur considerandolo un caso “disperatamente triste” per
tutti, i genitori impegnati a tenere in vita il piccolo, i medici coinvolti nelle
terapie, hanno ribadito la necessità anche in questo caso di decidere “in punto
di legge” secondo il criterio fondamentale del miglior interesse del malato (qui,
il bimbo ma sarebbe stato lo stesso nei confronti di un adulto) anche prevaricando
la volontà dei genitori o dei parenti.
Secondo
la common law, i diritti dei genitori
non sono assoluti, il diritto di custodia del padre nei confronti del figlio
non è inviolabile e insindacabile, ma subisce una sorta di supervisione da
parte dell’autorità pubblica, incontrando appunto il limite del “miglior
interesse” del bimbo così come interpretato e valutato dai magistrati.
Una
dottrina giuridica risalente al ‘600, poi integrata e modificata anche di
recente (nel 1925 e nel 1989), come citato dai giudici anglosassoni, che
assegna alla Corona, e dunque allo Stato, il compito di provvedere alla
protezione di chi non è in grado di badare a se stesso. Non a caso nei giudizi
davanti alla corte inglese il bimbo aveva un proprio legale (nominato d’ufficio),
diverso da quello della famiglia Evans, e sostenitore di una tesi opposta a
quella della sopravvivenza del piccolo proprio in nome di quel suo preteso
miglior interesse.
L’intervento
pubblico è storicamente giustificato sia dal pericolo che la famiglia possa
essere inadeguata a tutelare le esigenze dei figli (per esempio nel caso dei
pregiudizi religiosi in materia di trasfusioni di sangue) sia da quello che il
malato risulti privo di assistenza e cura da parte dei privati. Di qui il
ricorso al criterio del miglior interesse del malato come correttivo
dell’inadeguatezza o insufficienza della cura da parte dei privati.
Un
compito di supplenza, quello dello Stato, ispirato da un principio di
responsabilità dell’intera collettività per le sorti del singolo, che tuttavia
si espone a critiche nei casi – come questo – in cui vi siano comunque altri
interlocutori comunque idonei a esprimersi sulla sorte di chi non può
provvedere a se stesso per età o malattia.
Una
conciliazione difficile è quella tra le ragioni della scienza e le esigenze
dell’amore, tra i criteri del diritto e le motivazioni del cuore. Ma non
servirebbe alla fine tornare a privilegiare, contro la “razionalità
scientifica” delle scelte pubbliche, le ragioni affettive dei familiari. In questo
campo sono altrettanto impropri sia l’esercizio di poteri che la rivendicazioni
di diritti.
A
ben vedere la tragedia di Alfie, come in passato quella di Charlie, denuncia il
limite di ogni concezione che voglia appropriarsi del potere di decidere della
vita dell’altro. A chi appartiene davvero la vita di un essere umano? Chi può
deciderne? La vita e la morte rimangono un mistero imperscrutabile che lascia
comunque sgomenti ed affranti.
* Leggi anche su La Voce di New York:
* Leggi anche su La Voce di New York:
Credo che fondamentale sarebbe stabilire cosa e' "amore" e cosa invece non lo e' affatto, cosa e' "vita" e cosa non lo e'.
RispondiEliminaLo Stato Italiano e quello Vaticano meglio farebbero ad occuparsi di fatti interni invece di proporsi sempre come gli "angeli della vita" che tutto risolvono; La tragedia della Englaro non ci ha insegnato nulla, ci siam scordati di quel triste teatrino cui , fortunatamente, la provvidenza pose fine, e del dramma di quel Padre solo contro l'assurdita' umana. Il suo, indubbiamente, fu un gesto d'Amore.