Giovinezza, di Gioele Provenzano |
L’eco di canzoni lontane; esperienze ed incontri di altre stagioni
di Paolo Brondi
Rincorrere
stagioni felici e il prosaico divenire. Nell’aria quiete e serena della
campagna di tanto tempo fa, era tutta una festa di voli, di luci, di strilli.
Costretto per lunghi mesi a star chiuso in un’aula, non resistevo più alla voglia
di correre folleggiando libero per i campi, di fare scorpacciate di frutti e
poi, quando mi sentivo stanco, di distendermi lungo gli argini di un fiumicello
dove l’erba discendeva verde, disseminata di fiori, fino al pelo dell’acqua.
Al
mattino mi svegliavo al coro gioioso dei passeri che levavano nell’azzurro
terso del cielo i loro gorgheggi, agili, modulati, tutti cadenze e riprese,
tutti sonorità argentine, soste improvvise, ritorni melodiosi. Pareva allora
che una forza magica mi spingesse a saltare giù dal letto, per spalancare la
finestra e respirare l’aria sana di vita che si sprigionava da ogni zolla
feconda, da ogni ciuffo d’erba scintillante di rugiada, da ogni ramo che
sfoggiava, proteso al sole, la pompa delle sue foglie lucenti e dei frutti
vellutati.
Quante
volte sgusciavo via dal letto appena i galli, da un pollaio all’altro, facevano
a gara nell’emettere i loro chicchirichì! Poi via, ad assistere all’opera lenta
e laboriosa dei buoi condotti al lavoro dal vecchio fattore, Nicola, e alla sudata
fatica dei suoi figli che strappavano tesori immensi alla terra. “Vieni, vieni
a provare - mi diceva Nicola - come si scava la terra e si getta il seme!”. Mi
aiutava ad afferrare la vanga, ad affondarla per formare solchi e tutte quelle
operazioni mi rendevano assai più felice di quelle scoperte sui libri di
scuola.
Spesso,
in giornate ventose, salivo fin quasi sulla cima del mio albero preferito, un
grande noce, affidando allo stormir del vento i miei sogni. Le gote rosse,
capelli scompigliati, calzoni rattoppati, mi facevano un monello e ogni mio pensiero
era sciolto nel chiaroscuro delle nuvole o affidato alla culla delle foglie
scosse dal vento. Talvolta mi divertivo a catturare una fremente cicala. Taceva
di colpo quando la portavo giù, per meglio osservarla, per accarezzarne la coda
in attesa di un rinnovato canto. Rimanevo deluso e la malinconia di un suono
non più appagante mi spingeva a riappoggiare la cicala al tronco. Se non
cantava, la riportavo in alto verso un poco più di azzurro. La cicala, in
questo turbinio di movimenti, non riusciva a riporsi subito in sintonia con le
compagne e se ne stava immobile e muta. Allora, seguivo altri impulsi, altri
giochi.
Nel
tepore della sera mi ritrovavo ad osservare l’immensa volta celeste, soffusa
tutta di un manto di stelle, palpitanti e tremule, mentre il blando candore
lunare pioveva sui monti lontani inondando la pianura e avvolgendo carezzevole
tutta la natura. In queste scorribande mi era vicino Silvano, un buon
contadinello, bruno e forte, che conosceva tanti segreti sugli orti e sugli
animali, ma non sapeva distinguere un congiuntivo da un condizionale. Era
nipote di un agricoltore benestante, proprietario di terre confinanti con il
podere di mio zio ed aveva una madre ancora giovane e bella. Spesso lo
correggevo perché, compagno di scuola fin dalle elementari, ancora alla vigilia
del quarto ginnasio, ricadeva negli stessi errori.
Nella
quinta cambiammo maestra. Castigava i negligenti, ma premiava i buoni e ben
presto tutta la classe si trasformò qualitativamente: non c’era più un
negligente ma tutti, più o meno faticosamente, erano diventati buoni. Allora la
maestra portò in classe tanti libri belli e interessanti fra cui “La capanna
dello zio Tom”: leggendo queste pagine non ce la faceva a contenere le lacrime
e in classe non volava una mosca. La commozione prendeva ciascun alunno e,
senza parole né sforzo, la loro mente imparava la differenza fra il bene e il
male.
Silvano
faticava nel raggiungere la promozione da una classe all’altra, ma la sua volontà
e il desiderio di non staccarsi dall’amico, da me, gli permettevano sempre di
ribaltare insufficienze negli ultimi mesi di scuola e di ottenere gli sperati
giudizi positivi. In quelle estati vivevamo le stesse esperienze e le varie
suggestioni offerte dalla natura e dai viventi. Talvolta ci trovavamo ad
ammirare, con pari sentimenti, i vezzi e la vocina della piccola Giovanna,
figlia minore dello zio, che non si stancava di cinguettare con note armoniose,
trotterellando nella vasta aia, di fronte alla masseria, e verso la quale
Silvano nutriva un nascente sentimento, non solo amicale.
Quante
corse a rimpiattino, quante capriole insieme facevamo nella stagione della
mietitura, quando il grano steso sull’aia diventava un tappeto dorato, lucente
sotto il sole del giorno e illuminato all’imbrunire dalla luce rosseggiante del
tramonto! Ci giocavamo intorno e sopra mentre i contadini ballavano al suono
struggente delle fisarmoniche. Quando si faceva notte, il divertimento era
quello di rincorrere le lucciole che brillavano qua e là sopra le erbe del
giardino fino a catturarle, chiudendole un poco nel pugno per poi rimetterle in
libertà. “Giorgio, Giorgio – ripeteva Giovanna – guarda, ho due lucciole nella
mia mano e tu quante? Corriamo, ne prenderemo tante altre!”.
Silvano,
un po’ immusonito, perché non veniva così spesso invocato, aggiungeva “Ne ho anch’io
tante, vieni a vedere, Giovanna”. Poi, quando la brezza di quasi mezzanotte
lieve accarezzava il nostro volto, scompigliava un poco i capelli, sembrava dicesse,
col soffio leggero, grandi cose: portava l’eco di canzoni lontane, di ninna
nanna, dolci e piane che, udite da bambini e custodite in fondo al cuore,
affioravano tutte le volte che l’immensità del creato ci affascinava rendendoci
straordinariamente silenziosi.
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