di Giovanna
Vannini
Fu silenzio nell'attesa che i caffè fossero
lasciati dal cameriere sul piccolo tavolino. Le poche confuse parole dette fin
a quel momento sembravano già esser tutto. Quel "Grazie" accompagnato
da un lieve cenno della testa di Arthur interruppe quell'atmosfera sospesa. Poi
fu suono di zucchero in tazzine, di cucchiaini a mescolarne la scura bevanda.
Ognuno dei due cercava, non trovandola, una scusa per scrutare l'altro nelle pieghe del volto, per domandare l'indomandabile.
Ognuno dei due cercava, non trovandola, una scusa per scrutare l'altro nelle pieghe del volto, per domandare l'indomandabile.
La donna tossì, bevve il caffè in un sorso, prese
dalla tasca una sigaretta; ammezzata, stropicciata, come lei era. Quei pochi
gesti, messi insieme con lentezza, patrimonio di chi al nulla mira, dettero
modo ad Arthur di guardarla a fondo, di provare con fatica a ricordare quando e
se, fosse davvero avvenuta tra loro conoscenza, frequentazione.
Genevieve sua madre, in arte "Geneve",
gli tornò a memoria, con le sue mise di seta colorate, con la sua voce sempre
in canto, in prova, perché per lei la vita era sempre in palcoscenico e il
palcoscenico sempre nel suo vivere.
"Arthur"...- disse la donna - lasciando
uscire dalla bocca una nuvola di fumo denso, dall’odore stantio.
"Non ti soffiavi mai il naso e quando lei
ripartiva per la tournée, ammutolivi per due giorni, serravi la bocca, come se
tu volessi ruminare le parole non dette per vomitargliele addosso suo
rientro...”
Ad Arthur il volto andò in ghiaccio e il petto
sembrò fermarsi. Si sentì fragile, indifeso, messo all'angolo, come in quei
giorni lontani ora con ferocia d’immagini in parole riesumati. Non si vergognò,
non si oppose resistenza, lasciò alle lacrime il diritto di invadere gli occhi,
di mettere in singhiozzi la voce, si strinse in sé e a sé si abbandonò.
La donna ghignosa restò dov'era, ad inspirare ed
espirare il suo mozzicone, a godersi quella rinnovata scena di un vecchio
copione.
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