di Marina Zinzani
Parole
come bisturi che lacerano la pelle. Parole che frantumano sogni, scavano
ferite, annebbiano la mente. Parole di un uomo verso una donna. Vetri in
frantumi, l’immagine di sé derisa, scheggiata, sentirsi brutte, insignificanti,
invisibili. La fine dell’amore. Poi, poi c’è un altro aspetto, la latitanza.
La
solitudine, poche persone con cui parlare, forse nessuno con cui confidarsi, o che
avrebbe parole giuste e non banali. La latitanza di un’altra prospettiva, prima
di tutto nella propria mente. La latitanza di un lavoro, di una via di fuga, la
realtà fatta di sbarre invisibili ma reali, sbarre dei propri pensieri, delle
proprie paure, sbarre la propria scarsa considerazione di sé.
La
latitanza di quello che sarebbe giusto, di quello che necessita, della reale,
preziosa, indispensabile stima di sé porta alla frase che, in certi contesti,
assume un significato drammatico: “Io lo amo, nonostante tutto”.
E “nonostante tutto” significa spesso umiliazioni,
aggressività, urla, anche danni fisici e psicologici. Nonostante tutto ci si
aggrappa all’amore, a poche, disperate, briciole d’amore. Forse perché si pensa
di valere poco. Qualcuno, magari una madre distratta un giorno, ha usato una
parola sbagliata. O forse perché si spera in un domani migliore. Ma intanto gli
anni passano e la propria vita ferita non si riparerà mai. Lascerà strascichi
nel corpo, nella mente, in chi è attorno, i figli spesso, che hanno visto ciò
che non dovevano vedere.
Nonostante
tutto: la parola amore sembra un’isola a cui aggrapparsi, nel mare della
solitudine. Ma a volte è solo un abbaglio. Si è spesso soli, in mezzo al mare.
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