di Giovanna Vannini
Arianna partì, con la valigia grande, con lo zaino in spalla. Nella
valigia portava la vita già scritta, nello zaino quella ancora nella penna. In
testa un cappello di paglia a tesa larga, con nastri di seta colorati a
mescolarsi negli intrecci. Il viaggio sarebbe stato lungo: un primo autobus
fino alla stazione più vicina, un Freccia Rossa per Milano Malpensa, un volo
per una destinazione lontana.
Si caricò di bagaglio, prese il passo, il ritmo, il fiato, non si
voltò. Non perché ci fosse un lasciato da dimenticare, ma proprio perché quel
lasciato appena prossimo, era avvenuto in serenità, pienezza, soddisfazione,
tanto da condurla consapevole a quella decisione di partenza.
Quando al check in depositò valigia e zaino, si sentì leggera, si sentì
in consegna, di sé, dell’amore, che come una gazza ladra andava a riprendersi
in una terra di creole nere, dove il sole bacia la pelle tutto l’anno e la luce
muta il paesaggio nel tempo di un minuto.
Le ci erano voluti due anni, per capire che Esteban, amico fraterno,
partito per il Kenia come medico al servizio del popolo, scoppiava nel suo
cuore, nelle sue vene, nei suoi desideri, come l’unico uomo a cui consegnarsi.
Quando la voce dall’altoparlante annunciò il volo e il numero di
imbarco, Arianna tolse il cappello e lo adagiò sulla sedia alla sua destra,
infilò le dita di entrambe le mani tra capelli, liberò il volto tondo dalle
ciocche andanti sugli occhi.
Si alzò, prese il passo, il ritmo, il fiato, si voltò, rise al
cappello.
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