La storia di Lorenzo e dei
suoi amici di infanzia Nicola e Maria. Un
rapporto che non lo protegge da atti di violenza per il segreto che custodisce
e che lo porta verso
la tragedia. A distanza di tempo, la ricerca della verità su quel suicidio è
anche l’inizio di un percorso di crescita individuale
Romanzo
di Marina Zinzani
Riassunto della puntata precedente
Tutto era divenuto confuso nella vita di Lorenzo,
le cose gli apparivano irreali e prive di senso, un vuoto gli si prospettava
davanti, come quello oltre il muro del balcone.
Bastò un salto, e il mare ne inghiottì il corpo. Per sempre.
Il romanzo è pubblicato a puntate, in queste
date: 20, 23, 26, 29 novembre; 2, 5, 8, 11 dicembre 2017. Ognuna con brevi note
illustrative, anche per dar conto delle puntate precedenti.
ERAVAMO IN TRE
(2 capitolo)
Maggio 1989
La vita scorreva nell’antica
Roma. C’era l’imperatore Adriano, c’erano i baccanali e le feste, c’era un
tempo, prima della nascita di Cristo. C’erano, nei musei, statue che
ricordavano volti dalle espressioni solide e fiere, imponenti. Sembrava che lì,
a Roma, il tempo si fosse fermato, e si entrasse, soprattutto di sera, in uno
spazio temporale antico, un mondo sconosciuto e affascinante, ben lontano da
ciò che era scritto sui libri di storia. Erano statue, personaggi, atmosfere
che entravano nella pelle, che procuravano piacere e una continua, sottile,
euforia.
Questa era Roma, e Lorenzo la
percorreva per la prima volta, mai stanco, con i suoi due amici Nicola e Maria.
E la sera, che riportava la
Roma antica, con le sue luci che illuminavano il passato e lo risvegliavano
piano piano, lo sussurravano, la sera c’era il cibo migliore del mondo. Una
cena indimenticabile al ghetto. Incredibile che dai carciofi potesse venire
fuori quel sapore che Lorenzo si sarebbe portato dentro, nel ricordo, per tanto
tempo.
Roma, e tre ragazzi che ci
andavano per la prima volta. Era quella la felicità, forse.
Luglio 1990
Lorenzo abitava al sesto
piano dalle parti della Bovisa. Aveva pochi amici. Alcuni di loro erano morti.
Li aveva in fila sulla
scrivania, i loro scritti. Facevano parte della letteratura francese, inglese,
anche russa. Persone che se n’erano andate e avevano lasciato delle pagine con
delle storie, e quelle storie parlavano di famiglie, di persone, di solitudini,
di amori. Quelle storie era quello che rimaneva della loro vita.
Fra queste, una su tutte
spiccava: “Morte a Venezia”. Lorenzo sapeva che il racconto era nato da un
fatto vero, un susseguirsi di eventi che avevano creato un capolavoro. Poche
pagine, in fondo, per parlare dell’amore. Anche nelle sue forme misteriose e
per alcuni sbagliate.
La prima volta che l’aveva
letto, Lorenzo aveva trovato in Thomas Mann un amico, una mano pronta ad
allungarsi fino a lui. Era uno degli incontri di una vita. Le pagine dei libri
che salvavano, una persona che parlava, rincuorava. Una persona che non esisteva
più nel corpo, che aveva vissuto in un posto lontanissimo e in un altro tempo.
Ma una persona, in realtà, che esisteva realmente, se poteva toccare delle sue
corde.
Erano questi gli scrittori, i
poeti, e Lorenzo avrebbe voluto diventare come loro. Credeva di scrivere bene,
forse gliel’avevano anche detto a scuola, ma non era la tecnica il punto. Gli
sarebbe piaciuto percorrere quella strada per entrare in meandri scoscesi,
inopportuni, vili, violenti, immorali, della psiche. Gli dava piacere questa
cosa. Quando aveva iniziato a scrivere, prima qualche poesia, poi dei racconti,
aveva provato un certo stato di grazia: lontano da se stesso, dal personaggio
che tutti conoscevano, in una terra di nessuno ma piena di meraviglie. Era il
piacere degli attori, quando nel recitare indossavano altre maschere e quindi
altre emozioni. Lui, quel piacere, l’aveva provato nella scrittura.
Gli sarebbe piaciuto un
giorno pubblicare dei libri, e non per diventare famoso, quanto per guadagnarsi
da vivere scrivendo. Non gli importava la fama, e poi essere al centro
dell’attenzione gli provocava fastidio.
Un giorno aveva raccolto una
viola, era primavera. L’aveva staccata e l’aveva annusata. Gli era venuta una
storia da scrivere, e in effetti l’aveva scritta. Aveva conservato quella viola
fra un libro. Non era morta, era lì, a ricordare quel momento e l’idea di un
racconto. Un racconto che forse sarebbe diventato un romanzo.
Agosto 1990
Lorenzo aveva trovato un
nuovo amico. Uno scrittore, Forster, che aveva scritto un romanzo che gli era
sembrato meraviglioso: “Maurice”.
L’aveva letto tutto d’un fiato, aveva
incamerato dentro la sua mente certe frasi, certe sensazioni. Era come se la
luce dello scrittore si fosse posata su di lui. L’amore diverso e segreto, il
bivio fra verità e una vita di menzogna. Fra essere se stessi e fingere. Non
era facile per quelli come lui, lo sapeva bene. Per ora lo teneva segreto, questo
suo essere, e anche, in qualche modo, questo suo soffrire. Nessuno se n’era
accorto, almeno credeva.
In fondo, aveva due amici che
gli volevano bene. E uno di questi, Maria, era l’amica, la sorella, la madre,
tutto.
Camminare lungo i cornicioni.
No, non l’avrebbero mai fatto. Ma quella serata meravigliosa in cui, in un
circolo culturale, lui aveva letto una sua poesia e il piccolo pubblico l’aveva
applaudito, era sembrata così intensa, forte, che era come camminare lungo il
cornicione di un palazzo. Vedere il mondo dall’alto, in un’euforia mista a
risa. La gioia dei giovani. Una passeggiata lunghissima fino ai Navigli, in una
serata senza fine. Il pubblico aveva applaudito. Sembrava in modo sentito,
vero. E Lorenzo che parlava, parlava, e intanto passavano davanti a delle
librerie e diceva: “Un domani ci sarà il mio libro, qui.”
Maria lo guardava, avvolta in
uno scialle, con i jeans strappati e le scarpe basse e uno strano cappello in
testa. Era tenera, Maria. E lui percorse tutta quella strada con la mano sulla
sua spalla. Come due fidanzati. Ma erano qualcosa di più, in fondo.
Agosto 1990
Volare. Parlare di voli
sull’oceano e poi finire a New York. Manhattan. I film di Woody Allen, il mondo
intellettuale e nevrotico, gli strizzacervelli, la Grande Mela.
Lorenzo se ne stava steso sul
letto, con una guida aperta che parlava della città. Maria era anche lei nel letto,
scomposta, con i calzini a righe colorate.
“Accidenti! Ci pensi… uno arriva e vede la
Statua della Libertà! Poi andiamo nei musei, nei negozi, mangiamo nei
ristoranti etnici, e guarda… ci sono stradine piene di alberi… non sembra
neanche una metropoli… qui la gente gira in bicicletta… Poi andiamo a Central
Park…”
“Ci andiamo tutti e tre… Sarà
uno spasso…”
Agosto 1990
La musica soffusa di un bar e
il ricordo del mare. Il mare di Alassio, con le sue onde e il suo rumore e
corpi snelli senza segni di anni e di fatiche.
Il mare di Alassio e tre
corpi di ragazzi che erano arrivati lì in treno, un asciugamano e una borsa con
poche cose. Si erano fermati in una pensione a basso costo, e poi erano andati
subito in spiaggia. Loro tre stesi sulla sabbia, con Maria in mezzo e il
cappello di jeans che non abbandonava mai.
Lorenzo che aveva estratto
dalla sacca un quaderno e una penna. Guardava il mare, scriveva qualcosa,
mentre Nicola e Maria tacevano. Si erano poi alzati, loro due, e avevano messo
i piedi sull’acqua e lei aveva avuto un’espressione buffa, è fredda, aveva
detto. Ma Nicola l’aveva presa in braccio, mentre lei urlava, no, non farlo! Ci
erano caduti, nell’acqua, nell’acqua del mare di Alassio.
L’odore del fritto misto che
tentava drammaticamente. Contare i soldi, avevano pensato di mangiare solo
panini, in quei giorni al mare. Ma alla fine non avevano resistito, un fritto
misto in tre. Salato, croccante, pesce salato sulla lingua che entrava e
comunicava alla mente la gioia, l’aria del mare, la felicità di essere su
quella spiaggia. Lorenzo che parlava della sua storia, il racconto che aveva
scritto poteva essere il tema per un libro.
“Lui ad un certo punto torna
nella casa dov’è cresciuto…” aveva detto Lorenzo.
“No! Meglio lasciare in
sospeso… Chissà dov’è finito… E’ più forte terminare con un mistero… sai… le
cose non dette…” aveva consigliato Maria.
“Beh, ragazzi, dev’essere la
storia di un uomo che ha sbagliato tutto nella vita e che si redime. Il tema
della redenzione è sempre qualcosa di forte” e Lorenzo mentre diceva quelle
parole sorrideva, come se avesse tutta la storia in testa.
“Ma lei la fai morire o no?”
aveva chiesto Nicola.
“Basta che la fai diventare
una balena, una fallita, obesa e con i baffi” aveva detto ridendo Maria.
“Più o meno come diventerai
tu a quarant’anni!” aveva esclamato Nicola.
“Vai a quel paese!” aveva
detto lei.
“Maria, lui diventerà invece
un impiegato di banca, grigio, rachitico, che farà tutta la vita il percorso
casa-lavoro, lavoro-casa” l’aveva consolata Lorenzo.
“Sì, proprio così! E io verrò
alla tua banca e sarò grassa e tu triste e rachitico!”
“E tu? Tu cosa sarai a
quarant’anni?”
Lorenzo non aveva risposto.
Non aveva trovato la risposta.
Settembre 1990
La pioggia batteva sui vetri.
La pioggia cadeva sulle cose e sulle persone. La pioggia entrava nelle case,
dentro le pietanze sulla tavola, dentro l’acqua delle bottiglie, sui criceti
che erano nella loro casetta nella stanza dei bambini.
La pioggia accarezzava
delicatamente gli animi, portava loro rintocchi lontani, tic, tac, tic, tac,
rintocchi di un’antica, perduta armonia.
Lorenzo camminava sotto la
pioggia, era una pioggerella tenue, e lui aveva dimenticato l’ombrello. Si era
coperto la testa con il cappuccio della felpa. Pensava a una poesia sulla
pioggia. La pioggia batteva sui vetri. La pioggia cadeva sulle cose e sulle
persone.
Entrò in un bar. Si tirò
indietro il cappuccio bagnato, scosse la testa e i suoi capelli mossi, quasi
ricci. Ordinò un tè, e si sedette a un tavolino. Prese dalla sacca un quaderno e
una penna. Intanto la pioggia aveva cominciato a cadere sempre più incessante,
ormai era un acquazzone. Quando arrivò il tè bollente, lui mise le mani un po’
bagnate attorno alla tazza calda. Doveva scrivere.
La pioggia batteva sui vetri.
La pioggia cadeva sulle cose e sulle persone. E mentre scriveva rivedeva la
scena di qualche tempo prima, Nicola sul cornicione del muretto con le braccia
aperte per non perdere l’equilibrio, Nicola che camminava e Maria davanti. Lei
che scendeva, Nicola che si appoggiava alle sue spalle e scendeva anche lui.
Era un’immagine felice, loro
tre sempre insieme. E lui, che sembrava già adulto, che forse non era mai stato
un ragazzo e neanche un bambino, sembrava che vedesse tutto in quelle immagini
fugaci. Che niente sarebbe durato, che loro tre non sarebbero invecchiati
insieme, che non avrebbero condiviso gli anni a venire, fatto conoscere i
reciproci amori, le relazioni anche effimere. Quella scena rappresentava
qualcosa che si era fermato lì, fuggente come lo erano i ricordi magici, i
ricordi migliori.
Settembre 1990
L’acqua era di un colore
quasi blu. Si increspava con delle insenature d’argento, piccole onde che
arrivavano a riva, portando un’eco, un sussurro. Forse era il pensiero dei
pescatori sulle barche, forse la loro voce arrivava struggente fino a riva.
Forse quel mare dai colori blu e verdi portava la voce di qualcuno, la voce che
Lorenzo poteva a tratti raccogliere.
I suoi occhi blu erano come
quel mare, il mare del posto da dove veniva suo padre. Non c’era mai stato a
Tangeri, eppure ne aveva sentito parlare da piccolo prima che il padre
sparisse, alla ricerca di un’altra vita, in un’altra città. E quegli occhi blu,
rari in un ragazzo dai capelli neri e dalla pelle ambrata, sembravano catturare
la voce del mare, la malinconia e le impressioni del mare. Le voci delle
persone senza volto. Quelle di cui voleva scrivere.
C’erano dei giorni in cui una
passeggiata in un mercato era fonte d’ispirazione: vecchie mani irrigidite
dalla fatica gli facevano immaginare la vita di un uomo, la sua storia, la sua
casa. Una donna che portava la borsa della spesa, piena di frutta e verdura dai
prezzi più bassi, gli suggeriva la sua vita dentro mura umide, in un corpo
appesantito dal tempo.
Raccoglieva tutto, Lorenzo, e
lo portava nel suo mondo, in un angolo misterioso della sua mente.
Non sapeva quando aveva avuto
la percezione che per lui le cose fossero diverse...
Finora quella cortina di
mistero di cui si era circondato, la sua discrezione, il suo essere vago,
l’avevano salvato. Eppure sapeva che era una scadenza a termine, che prima o
poi qualcuno avrebbe saputo, immaginato, e allora, allora tutto sarebbe finito,
ci sarebbe stata la resa dei conti e in questa resa lui non era preparato.
Non l’avrebbero aiutato i
suoi libri, non l’avrebbero aiutato Oscar Wilde e Forster perché anche loro se
l’erano passata male in vita e non avevano avuto grandi antidoti al giudizio
degli altri e alla loro crudeltà.
Sapeva che quando sarebbe
arrivato quel momento, avrebbe dovuto guardare negli occhi suo padre, il padre
severo che si ricordava di lui due volte l’anno, e la madre, dallo sguardo
dolce, delicato, ma decisa su ciò che era giusto e ciò che non lo era.
Ecco, c’era sempre la
malinconia del mare blu di Tangeri, dei pescatori al largo che le mogli
aspettavano, delle attese al porto quando era tardi e questi ancora non
arrivavano. C’era un appuntamento per lui, prima o poi.
Febbraio 1991
“La morte si presenta una
mattina. Non hai voglia di alzarti, di lavarti, di mangiare. Non hai voglia di
sapere cosa succede là fuori. Hai solo voglia di startene lì, fermo nel letto,
e di non scendere in mezzo al mondo. Perché del mondo, ora, non ti interessa
più niente.
La morte si presenta con
delle premonizioni, che senti solo tu e nessun altro.
La morte si presenta per
stanchezza, per una nuotata che ti ha prosciugato ogni energia, una nuotata
controcorrente.
Lo senti, lo vedi, quando
questo succede. Vedi il male ovunque, alla televisione, nei fatti di cronaca,
quel male che si è annidato anche dentro il tuo corpo, nella tua mente.”
Lorenzo aveva riposto la
penna e aveva guardato fuori. Pioveva. Tutto sembrava triste.
Le vessazioni a scuola
continuavano, battute, cenni d’intesa. Discorsi interrotti quando si avvicinava
lui. Sorrisi maliziosi fra ragazze. Era diverso, lo sapevano tutti, ora.
Era intelligente per farcela,
aveva un mondo interiore capace di superare la stupidità degli altri. Questo lo
sapeva. Ma le delusioni si erano sommate, granello dopo granello, ed ora
sentiva improvvisamente una grande stanchezza.
E allora, come fosse una
magia, era entrato dentro il mondo di Oscar Wilde.
Esule a Parigi dopo l’uscita
dal carcere per omosessualità, esule dal mondo che contava, esule dalla vita
briosa e brillante, esule dai salotti e dalle donne affascinanti, esule dai
vestiti eleganti, esule dalle risate con gli amici davanti a una bottiglia di
assenzio, esule dai pranzi raffinati, esule dalle rappresentazioni teatrali di
cui parlare per ore, esule dalle giornate di pioggia in cui si intravedeva lo
spuntare del sole, esule da un pranzo di Natale con tanti amici attorno, esule
dalla gioia segreta di avere una pace, un’armonia dentro.
Lorenzo aveva percorso con
lui gli ultimi giorni nella città più bella del mondo con il suo corpo pesante,
i suoi vestiti stantii e la sua etichetta. L’amore di cui non si può dire il
nome. Era uno di quelli, Oscar Wilde. Un’etichetta che lo aveva segnato a vita.
Lorenzo lo aveva accompagnato
lungo la Senna di sera, era entrato nella chiesa vicino al suo albergo, aveva sentito
solennità nelle parole del prete che diceva la messa, parole che però non
consolavano.
Lorenzo lo aveva accompagnato
anche in un caffè e lì aveva visto la vita scorrere, frizzante come poteva solo
essere la vita a Parigi, con quel gusto in più. L’aveva visto triste, perché
quella vita lì a lui non apparteneva più. La vita stessa si stava allontanando,
mentre saliva il suo male all’orecchio, e l’infezione stava entrando dentro il
suo cervello.
L’ultima sera, Lorenzo aveva
preso in mano un suo libro. Sapeva che lui gli aveva dato tanto e che l’avrebbe
accompagnato, ancora una volta.
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