“Non è possibile rivederci il prossimo weekend”: i silenzi, le paure, la
voglia di ricominciare che accompagnano la fine di una relazione
Racconto
di
Paolo Brondi
Barbara
non attraversava un bel periodo, ma quel giorno sentiva un presagio di cose
nuove. Uscita dalla doccia, apprezzava il conforto della sua casetta, donata
dal padre, affermato architetto in quella terra baciata da sole e dal mare
lucente che è la Versilia, pensando e ripensando che da quando aveva scelto di
vivere sola, non si era rinchiusa a riccio, ma aveva ritrovato in sé i
sentimenti più reconditi, riprendendo a godere di ogni attimo della vita: il
rumore del mare, la pioggia, la rugiada, il canto degli uccelli, il profumo dei
fiori.
Aveva
conosciuto moltissime persone, nelle sue scorribande di donna libera, con
qualcuna delle quali aveva stretto rapporti più affabili, con pochissime anche
intimi. Ma non sapeva più che cos’è l’amore. Non conosceva più quel nodo alla
gola che la faceva restare senza respiro e la distraeva da tutto. Ogni persona
le sembrava amabile solo per certi aspetti, mai in tutto. Ovunque si sentiva
straniera, provava sempre una porzione di disappartenenza.
Non
stava comunque male, anzi, mai era stata così in pace con se stessa. Solo in
certi momenti soffriva la mancanza di una dialettica vera, al di fuori del
cicaleccio d’intorno. Sottile era il suo tormento quando riaffioravano i ricordi di una cattiveria o lo struggimento di una carezza
o l’aver voglia di pensarlo, di rivedere con gli occhi dell’immaginazione
l’uomo che aveva amato e che ancora amava.
Lo aveva incontrato in un momento particolare di ricerca di
affetto, di comprensione, di amicizia, di condivisione d’interessi musicali, di
rarefazione, fino a provare l’impressione, gradevole, confortante, seppure un
poco angosciante, di essersi ritagliati un tempo che aveva il fascino del
mistero, di una realtà che nessun ripensamento oscuro o senso di colpa, o
paranoia valutativa, sarebbe riuscita a sminuire.
L’aveva conosciuto durante un convegno di psichiatria, a Milano:
si chiamava Luca e quando le fu presentato e le strinse la mano, le sue dita
lunghe e calde lievi si posarono sulla sua pelle e un intenso brivido di
piacere si diffuse in ogni parte del corpo. Era psicologo e gli fu facile
coinvolgerla subito in un crescendo d’incontri, sempre nei weekend e nelle più
belle atmosfere d’Italia e con medesima poesia.
Sceglievano sempre pizzerie o enoteche, un frugale
consumo: apparentemente il trionfo delle esigenze del corpo, in realtà
l’esaltazione gioiosa della loro soggettività, una minimale gestualità, resa
euforica da vini squisiti e orientata da un sentimento splendente. Quando la
scelta li favoriva, preferivano un angolo prossimo a una finestra, ove luci
diffuse e tenue bagliore di candele consentissero un nuovo risalto alla sua
bellezza, alla sua dolcezza di donna, assetata di essere vera, accolta, amata,
e a lui il dono di parole affabulanti e nuove per preziosità amorosa.
Poi, dopo la fame saziata, le loro mani si cercavano in
un’ansia di appartenenza, e così intrecciati andavano per vie strette e
pallidamente illuminate, fino al loro albergo. E qui, i loro corpi, subitamente
liberi dei costumi del mondo, si univano, in tenera e crescente armonia
sessuale della corporeità tutta, non senza mirabile apporto di una fantasia
prorompente ed essenzialmente creativa che dilatava i tempi dell’amore e
strappava profondi sospiri di godimento profondo e beati sorrisi di appagamento
totale. Facevano scivolar via le ore, nel loro tempo, fatto di “carezze qui, carezze là” - come
cantava il loro autore preferito - e di parole, fiori dai petali morbidamente
sparsi intorno a due persone felici.
Poi il tracollo! Luca scomparve! Cominciò con il non
confermare un successivo week end inviando per fax un freddo messaggio:
“Barbara, sono tremendamente spiacente, ma non mi è possibile rivederci nel
prossimo weekend. Devo partecipare ad un importante meeting a Madrid, ciao, a
presto”. Non ci fu seguito!
Giorno dopo giorno tutto era più vuoto, ogni cosa
trasmutava colore, appiattita nella monotona e fredda cadenza delle ore. Eppure
a lungo perduravano nella sua mente e nel cuore folate di immagini, sempre
belle e pure, in un mare di sentimenti, un mare non tempestoso e oscuro, ma
appagato dal calore del sole e dal tepore della luna. E tornava memoria del loro
ritrovarsi in stazione, i baci sospesi, ritardati e frementi sotto la
pensilina, le carezze lunghe, insaziabili, nell’aria limpida, intensamente
azzurrata, attraverso i saliscendi delle strette vie o i vicoletti che
rinserrano la vista per poi liberarla verso splendide policromie paesaggistiche.
Era sorprendente per lei rivedere in quel corpo, ormai
completamente assente, occhi che ti guardano intensamente per dire chissà.
Cercava quello sguardo, parole, affetti, risonanze che pure ormai erano come
luce silente e le pareva che quegli occhi, quello sguardo lungo, carezzevole,
fossero come le campane pascoliane, invocano. chiamano oltre lo spazio oltre il
tempo in un naufragare nell’indefinita assenza.
Riviveva l’ultimo incontro, non paragonabile a nessun
altro per aver provato una gioia incontenibile: quella manifestata dal rinato
significato di donarsi ad un uomo, come donna di casa, brava, ricca di genuino
entusiasmo nella preparazione di un pranzo per lui, segno di perfetta sintonia,
affiatamento, sincronia, anche nelle piccole umili cose: preparare la
macedonia, triturare il prezzemolo, aprire la bottiglie di vino.
Tentò di fuggire questa temperie di sentimenti e se ne
andò sulle nevi, in Engadina: un paesaggio meraviglioso bagnato da profondi
silenzi, inconsueto, suggestivo, un paesaggio che la vide sola e pensosa, ma
via via più rasserenata, meno fremente di amore per lui. Si rafforzò in lei la
convinzione che fosse meglio non aver più a che fare con una persona simile, nessun
contatto, nemmeno un ciao, far tacere tutto! Si riprometteva di abbandonarsi
all’oblio che avrebbe segnato la fine di tutto.
Ma poi, tornava a interrogarsi “Perché questo ostinato e tenace
rifiuto che peraltro, a volte, sento che rafforza la mia autostima? È un
imposto meccanismo di difesa, di controllo?”. Si ricordava, per averla sentita
dal suo principale, la metafora dei tre alberi, di Marcel Proust “Se non ci
terrai con te, se non ci ricorderai, se non risolverai il nostro enigma, una
parte di te stesso ci sfuggirà”.
S’illudeva
che le rimanesse uno spiraglio di sole, di speranza. Quella di risentirlo. Di
una sua telefonata, di un suo richiamo. “Senza di te - si diceva - sarò
veramente sola, non m’importerà più di niente e allora il mare sarà veramente
il mio rifugio”. Lottava per non ridursi a pensare che fosse stato tutto un
gioco, un capriccio dettato dalle costellazioni astrali, oppure da una sorta di
febbre, destinata a crescere, ma che doveva infine esaurirsi con una cura
adeguata.
Aveva
creduto che la cura potesse essere quella di un fisioterapista molto bravo. “Il mio fisico sta somatizzando il dolore affettivo che sto vivendo: la
schiena è bloccata”. Da lui ricevette un compito: per tre settimane, non
leggere, non scrivere, non parlare più dell’ex, lasciare in sospeso qualsiasi
pensiero che arriva, lasciare andare. Abbandonarsi al presente senza più
parlarne con nessuno.
“Inizialmente – si ripeteva - mi son detta
che aveva ragione, però poi, ripensandoci meglio, non credo che sia importante
parlare o non parlare di lui. Non è importante che io lo pensi o no. È
l’atteggiamento dentro di me che deve mutare. Siamo noi che guardiamo la realtà
e diamo un significato alle cose su quello che siamo e sentiamo dentro. È
difficile da accettare, ma questa è l’unica strada che sento e vedo oggi
percorribile”. E scoprì
che migliore terapia per lei erano gli obblighi del lavoro che le permettevano
di evadere per più ore dai pensieri. Il suo principale non conosceva la sua
storia con Luca: era il suo immenso e straordinario segreto e tale doveva
rimanere.
Nessun commento:
Posta un commento