Con la poesia del
tramonto, i primi amori
di Paolo Brondi
I giovani
di allora, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ballavano all’aperto, alle spalle
della collina dove c’era una pista da ballo, al canto e alle musiche di Carnevale di Venezia, Ciribiribin, Gelosia,
Tango delle rose, Sul bel Danubio blu, Onde del Danubio, La Cumparsita, Violino tzigano, La Vedova allegra.
E quando il
sole annunciava la sera, la ragazza pregava lui di riaccompagnarla a casa: «È tardi, devo tornare a casa, mio padre mi
aspetta», ripeteva con un’ansia sconosciuta ai giovani dagli anni oltre
i Sessanta progressivamente disabituati a misurarsi con la poesia dei tramonti
per divenire folla delle notti al neon.
Camminando,
lei gli stringeva la mano, si alzava al suo viso e lo baciava, e mormorava: «Ti amo, ora, domani, sempre». Lui accarezzava
con gli occhi le mani, le labbra della sua dolce ragazza, fiducioso di una
permanenza non effimera del vincolo con lei. E sul finir dell’estate del 1963,
quando ancora le lucciole lampeggiavano sul prato profumato di verbena, lei si
abbandonò al suo uomo. Una settimana, un mese, di intensa passione, alla luce
pura, splendente, di un innamoramento fra due giovani tutti immersi in un tempo
senza tempo.
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