di Marina Zinzani
Quattro matrimoni in un mese, feste di compleanni, anniversari, e poi la gente comune, i fidanzati, gli amici, le famiglie che si ritrovavano il sabato sera per una pizza, per la voglia di stare insieme, dopo una settimana di lavoro. Piccole comunità che sono diventate familiari.
I camerieri che sapevano già il tipo di vino che quel cliente sceglieva, il tipo di acqua, il dolce preferito. L’ansia per i grandi ricevimenti, che tutto andasse bene.
L’ansia in cucina che si tagliava col coltello, ma poi quei piatti che tornavano indietro, vuoti, erano l’appagamento migliore, il risultato migliore. L’eco di tanti “viva gli sposi”, le musiche di “happy birthday”, le mani che sbattevano. I guadagni non da diventare ricchi, c’erano tante spese, anche l’esigenza di migliorare il locale, di migliorare il servizio, di tenere alta la qualità dei cibi.
Sono qui, dentro il mio locale, e mi sembra di tornare indietro nella macchina del tempo. Una sposina, un po’ brilla e raggiante di felicità, viene verso di me e mi dà un bacio, “è stato un pranzo magnifico” mi dice, e io, che ho sessant’anni, sono quasi in imbarazzo per tanto apprezzamento alla mia cucina, per come ogni cosa è stata perfetta, nel mio locale.
Dove sarà ora quella sposina raggiante di felicità? Sono passati due anni, e vorrei, avendo una bacchetta magica, riportare tutto a quel giorno. Ai 150 invitati che battevano le mani, e lei che ballava con il marito in mezzo alla sala, era veramente scatenata, ad un certo punto si erano uniti degli amici agli sposi e avevano ballato il sirtaki, la musica era contagiosa.
Vorrei farla tornare, far tornare quel momento in cui lei, forse tanto allegra per qualche bicchiere di troppo, chiede di andare in cucina e vuole ringraziare tutti, proprio tutti quelli che hanno servito il pranzo dei suoi sogni, che meglio di così, ribadisce, non poteva essere. La rivedo là, di fronte al cuoco, è tutto sudato Gustavo, i suoi 100 chili e il faccione bonario, e lei gli dà la mano e dice “grazie, grazie!”.
E la vedo che saluta tutti i camerieri, e c’è Rosetta che si scioglie con una lacrimuccia, io lo so perché, la capisco, lei si emoziona facilmente quando vede una sposa. Siamo una famiglia, siamo diventati un po’ una famiglia, io che gestisco il ristorante, mia moglie, i camerieri, i lavapiatti, il cuoco, tutti, tutti abbiamo dato tanto a questo locale, tanto.
Vorrei farla tornare, la sposina un po’ matta, piccolina, mora, con dei boccoli e un sorriso incredibile, che non sta nella pelle tutto il giorno, è felice e spensierata, lo si vede, parla con tutti i presenti, si muove di tavolo in tavolo e si ferma a chiedere, a raccontare ad ogni commensale.
Piccola sposa di un momento felice. Vorrei farla tornare, far tornare quel momento. Le luci si accendono, e tac! Il locale si riempie, è davvero pieno, ci sono più di cento persone da servire, dai, avanti, dobbiamo dare il meglio, ragazzi, dobbiamo fare bella figura! Non serve neanche chiederlo, ognuno ha sempre fatto la sua parte, con passione. Cosa difficile da trovare, la passione, ma io l’ho trovata, nei miei dipendenti.
Le luci sono spente, stasera, il locale chiuso. Coronavirus. E i morti.
L’ansia in cucina che si tagliava col coltello, ma poi quei piatti che tornavano indietro, vuoti, erano l’appagamento migliore, il risultato migliore. L’eco di tanti “viva gli sposi”, le musiche di “happy birthday”, le mani che sbattevano. I guadagni non da diventare ricchi, c’erano tante spese, anche l’esigenza di migliorare il locale, di migliorare il servizio, di tenere alta la qualità dei cibi.
Sono qui, dentro il mio locale, e mi sembra di tornare indietro nella macchina del tempo. Una sposina, un po’ brilla e raggiante di felicità, viene verso di me e mi dà un bacio, “è stato un pranzo magnifico” mi dice, e io, che ho sessant’anni, sono quasi in imbarazzo per tanto apprezzamento alla mia cucina, per come ogni cosa è stata perfetta, nel mio locale.
Dove sarà ora quella sposina raggiante di felicità? Sono passati due anni, e vorrei, avendo una bacchetta magica, riportare tutto a quel giorno. Ai 150 invitati che battevano le mani, e lei che ballava con il marito in mezzo alla sala, era veramente scatenata, ad un certo punto si erano uniti degli amici agli sposi e avevano ballato il sirtaki, la musica era contagiosa.
Vorrei farla tornare, far tornare quel momento in cui lei, forse tanto allegra per qualche bicchiere di troppo, chiede di andare in cucina e vuole ringraziare tutti, proprio tutti quelli che hanno servito il pranzo dei suoi sogni, che meglio di così, ribadisce, non poteva essere. La rivedo là, di fronte al cuoco, è tutto sudato Gustavo, i suoi 100 chili e il faccione bonario, e lei gli dà la mano e dice “grazie, grazie!”.
E la vedo che saluta tutti i camerieri, e c’è Rosetta che si scioglie con una lacrimuccia, io lo so perché, la capisco, lei si emoziona facilmente quando vede una sposa. Siamo una famiglia, siamo diventati un po’ una famiglia, io che gestisco il ristorante, mia moglie, i camerieri, i lavapiatti, il cuoco, tutti, tutti abbiamo dato tanto a questo locale, tanto.
Vorrei farla tornare, la sposina un po’ matta, piccolina, mora, con dei boccoli e un sorriso incredibile, che non sta nella pelle tutto il giorno, è felice e spensierata, lo si vede, parla con tutti i presenti, si muove di tavolo in tavolo e si ferma a chiedere, a raccontare ad ogni commensale.
Piccola sposa di un momento felice. Vorrei farla tornare, far tornare quel momento. Le luci si accendono, e tac! Il locale si riempie, è davvero pieno, ci sono più di cento persone da servire, dai, avanti, dobbiamo dare il meglio, ragazzi, dobbiamo fare bella figura! Non serve neanche chiederlo, ognuno ha sempre fatto la sua parte, con passione. Cosa difficile da trovare, la passione, ma io l’ho trovata, nei miei dipendenti.
Le luci sono spente, stasera, il locale chiuso. Coronavirus. E i morti.
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