di
Paolo Brondi
(L’immigrazione fra diffidenze, estraneità
e richieste di cittadinanza)
Seppur
possibile e doveroso è il problema politico-giuridico di dar cittadinanza e
diritto di voto agli immigrati, non altrettanto facile è quello
dell’investimento morale. L’indifferenza si è fatta costume e la prossimità è
negata.
L’idea e il sentimento della prossimità è evangelica: quel prossimo, quello su cui l'esperienza inciampa, per terra o per mare, è un tu non diverso da me. Eppure è segno di frantumazione quel camminare a fianco gli uni degli altri, senza guardarci, o guardandoci appena il necessario per riconoscerci. Ci muoviamo come "ombra che passeggia, ombra che cammina che continua a muoversi, ma che è sempre ombra" (dal Macbeth, Shakespeare). Crescente è la fredda alterità! “Altro” è qualsiasi che sento “diverso” da me (l’albanese, il palestinese, il curdo, il serbo, l’armeno, il disoccupato, l’immigrato).
La sorte maligna di esuli, le disgrazie, i disastri della guerra o della natura, raramente suscitano pietà e compassione, e piuttosto nutrono sentimenti di noncuranza e l'isolamento: la malattia stessa destina a una triste solitudine. Lo ricorda Giobbe, con parole amare “I miei conoscenti mi si sono fatti estranei, sono scomparsi i vicini, i familiari mi ignorano. Come un forestiero mi trattano ospiti e serve, ai loro occhi sono un intruso. A mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre. Anche i monelli mi disprezzano e mi colmano di insulti…” (dal libro di Giobbe, 19, 14-19). Si dispera Giobbe e vive tutto l'enigma della creatura che si chiede perché Dio debba così umiliarla attraverso piaghe e dolori. Dio dovrebbe essere convocato in un giusto processo. Ma come convocare un Dio in un giusto processo, quando non essendoci mediatore alcuno, Dio da imputato diventa anche giudice? E come può esserci tutela per la parte lesa se l’imputato è al tempo stesso giudice?
L’idea e il sentimento della prossimità è evangelica: quel prossimo, quello su cui l'esperienza inciampa, per terra o per mare, è un tu non diverso da me. Eppure è segno di frantumazione quel camminare a fianco gli uni degli altri, senza guardarci, o guardandoci appena il necessario per riconoscerci. Ci muoviamo come "ombra che passeggia, ombra che cammina che continua a muoversi, ma che è sempre ombra" (dal Macbeth, Shakespeare). Crescente è la fredda alterità! “Altro” è qualsiasi che sento “diverso” da me (l’albanese, il palestinese, il curdo, il serbo, l’armeno, il disoccupato, l’immigrato).
La sorte maligna di esuli, le disgrazie, i disastri della guerra o della natura, raramente suscitano pietà e compassione, e piuttosto nutrono sentimenti di noncuranza e l'isolamento: la malattia stessa destina a una triste solitudine. Lo ricorda Giobbe, con parole amare “I miei conoscenti mi si sono fatti estranei, sono scomparsi i vicini, i familiari mi ignorano. Come un forestiero mi trattano ospiti e serve, ai loro occhi sono un intruso. A mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre. Anche i monelli mi disprezzano e mi colmano di insulti…” (dal libro di Giobbe, 19, 14-19). Si dispera Giobbe e vive tutto l'enigma della creatura che si chiede perché Dio debba così umiliarla attraverso piaghe e dolori. Dio dovrebbe essere convocato in un giusto processo. Ma come convocare un Dio in un giusto processo, quando non essendoci mediatore alcuno, Dio da imputato diventa anche giudice? E come può esserci tutela per la parte lesa se l’imputato è al tempo stesso giudice?
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