Racconto
di Vespina Fortuna
Tratto
da “Donne maledette”
(ap) Una raccolta di
storie (immaginarie) di donne che hanno vissuto sulla loro pelle un orrore,
diverso per natura, ma sempre lacerante, affrontato con una forza disperata,
alla ricerca di una via di uscita, forse impossibile da trovare.
Vincenza già
conosceva il suo destino, sino dal giorno in cui era nata.
La madre e le sorelle trascorrevano la vita a compiacere gli uomini del paese. Era cresciuta tra essenze di violetta e profumi di rosa canina in una casa un poco fuori dal paese, tra vigneti e agrumeti abbandonati. Il profumo delle zagare indicava la strada ai fruitori del piacere ed i colori arancio e giallo dei frutti contribuivano ad aumentare il desiderio.
La madre e le sorelle trascorrevano la vita a compiacere gli uomini del paese. Era cresciuta tra essenze di violetta e profumi di rosa canina in una casa un poco fuori dal paese, tra vigneti e agrumeti abbandonati. Il profumo delle zagare indicava la strada ai fruitori del piacere ed i colori arancio e giallo dei frutti contribuivano ad aumentare il desiderio.
In quella casa
non vivevano uomini. Rosaria aveva partorito sei figlie senza sapere chi
fossero i padri di ciascuna di esse. Per fortuna aveva avuto solo femmine,
potevano proseguire la sua strada, certe che il pane per loro non sarebbe mai
mancato. Passavano tutto il tempo a lavarsi, pettinarsi, conciarsi, profumarsi,
vestirsi e spogliarsi.
La casa non aveva
porte a dividerla, ma tende colorate e trasparenti affinché già dal corridoio,
insieme al naso, potesse trarre piacere anche l’occhio e l’orecchio.
Vincenza era
stata l’ultima a venire al mondo. Era secca secca e lungagnona. Rosaria, la
madre, si era fatta una certa idea di chi potesse essere figlia oltre che sua,
ma non le interessava saperlo con certezza, l’importante era che fosse femmina
e che un giorno avesse contribuito al sostentamento della famiglia come tutte
le altre sue sorelle. Era ancora presto, mancavano ancora cinque anni prima che
ne compisse quattordici e potesse essere iniziata alla professione.
A differenza
delle sorelle e della madre, però, Vincenza non amava truccarsi né profumarsi e
tutto quell’andirivieni di uomini, quei suoni sempre uguali e quegli sguardi
lascivi, la infastidivano e la distraevano dalla sua attività preferita: lo
studio.
Andava a scuola
con piacere, Vincenza e aveva preso a modello la maestra. Le piaceva perché era
diversa dalle donne di casa sua. Si vestiva con abiti scuri dai colletti grandi
e le sue gonne non salivano mai più su del ginocchio. Sapeva parlare
pacatamente, non gridava mai e il suo sorriso non era mai ammiccante. Sapeva
tante cose la sua maestra e aveva una risposta per ogni domanda. In classe la
guardava con lo stesso sguardo dolce con cui guardava le altre scolare e almeno
lì non si sentiva giudicata.
Un giorno,
tornando da scuola, Vincenza posò i libri sul tavolo e annunciò: “Io da grande
voglio fare la maestra!” Una risata ruppe il primo momento d’imbarazzo e, un
ceffone in pieno viso, il secondo. Rosaria le voltò le spalle con la mano che
ancora le bruciava per il forte colpo e uscì di casa a grandi passi fino
all’albero di fico. Ciò che aveva sempre temuto era successo. Una delle sue
figlie le avrebbe chiesto di cambiare il proprio destino, ma lei era convinta
che non fosse possibile perché, secondo lei, tutte loro non potevano essere
altro che le puttane del paese. Nella sua piccola testa ignorante pensava che
il mondo fosse tutto lì, nel suo paese di quattro anime. Si asciugò il viso
bagnato di lacrime di rabbia e tornò a casa. “La vita tua è questa! Non la puoi
cambiare! Gli uomini aspettano che ti cresca il petto da quando sei nata. Non
ti fare grilli, non si cambia il destino. E ringrazia Dio che un lavoro sicuro
lo tieni!”
Da quel giorno
l’umore di Vincenza cambiò. Era convinta del contrario, non poteva avere
ragione sua madre. Una notte decise di fuggire. Camminò per ore al buio e
all’alba arrivò alla stazione del paese vicino. Il bigliettaio la riconobbe e
le chiese che ci facesse lì a quell’ora del mattino, lei non gli rispose, ma il
suo silenzio fu eloquente. Allora l’uomo si tolse la giacca e le coprì le
spalle che le vibravano per la paura e per il freddo. Il treno stava arrivando,
lo vide da lontano e ne sentì il rumore, la libertà era a due passi da lei, ma
l’uomo la tratteneva per la mano. Provò a divincolarsi, quello fu colto di
sorpresa ma la trattenne per la punta delle dita, Vincenza allora dette un
ultimo strattone e sentì il proprio corpo volare in cielo e ricadere sulle dure
rotaie di ferro. Scattò in piedi, il treno stridette, piccole scintille si
sollevarono tutt’intorno alle ruote bloccate, ma non riuscì a fermarsi. Fu un
attimo. L’attimo che serve per passare dalla vita al nulla più.
Il capotreno
corse all’ultima carrozza e riavviò i motori per tornare indietro. Quando il
piccolo corpo di Vincenza fu scoperto, giaceva fra una traversina e l’altra,
già gonfio e tumefatto. “Chi è?” Domandò un passeggero al bigliettaio. “E
Vincenzina, la figlia di Rosaria, la puttana.”
Per fortuna, la
bimba era già morta e non poté sentirlo. Chissà, magari il suo ultimo pensiero
fu per la maestra e la sua ultima immagine fu quella di se stessa, vestita con
la gonna sotto il ginocchio e il colletto della camicia bianco mentre
rispondeva a tutte le domande del mondo che le ponevano i suoi scolari.
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