Il sistema americano ha mostrato fragilità e forza: la “resistenza” rispetto all’anomalia Trump e a svolte autoritarie dipende dai “contrappesi” costituzionali, in politica e nella società civile
(Angelo Perrone) Il rito laico delle elezioni, alla base della democrazia, è contestato in America dallo stesso presidente in carica nella sua legittimità, con un flusso incalzante di accuse: brogli, soppressione di schede, irregolarità varie. Nonostante questo, l’America sembra farcela a superare una delle prove più difficili della sua storia: evitare il precipizio verso il quale è stata sospinta dalla spregiudicatezza di Donald Trump. La transizione sino al 20 gennaio, data dell’insediamento del nuovo presidente eletto Joe Biden, sarà incandescente, e potrebbe esserci una sequenza di manovre destabilizzanti.
Le accuse rivolte da Trump sono importanti, non decisive. Certo insolite in un paese di antiche tradizioni. Comunque da esaminare seriamente, non si sa mai. Ma da prendere anche con le molle dato il contesto. Sparate a raffica da lui e dal suo team di legali agguerriti negli Stati in cui ha perso per pochi voti. Senza prove concrete. Già considerate infondate da osservatori internazionali. Neppure considerate attendibili dalle cancellerie occidentali.
Ciò che desta maggiore preoccupazione è il “cuore” di tutto l’atteggiamento di Trump: considerare validi solo una parte delle voti espressi, quelli favorevoli ed espressi ai seggi, non gli altri pervenuti per posta e maggiormente pro Biden; pretendere addirittura che si possa chiudere lo spoglio dei voti una volta raccolti quelli favorevoli e non conteggiare gli altri; minacciare sfracelli pur di non ammettere la sconfitta.
La democrazia americana in ostaggio? La Casa Bianca trasformata in un fortino del vecchio West in cui resistere ad oltranza agli attacchi dei democratici guidati dall’usurpatore Biden? Per quanto tempo ancora, in che modo? E’ una fase politica di estrema delicatezza: l’estrema destra fanatica, infervorata dai tweet di Trump, scalpita in attesa di parole d’ordine; i fans pendono dalle sue labbra; in giro, c’è una polveriera: il numero delle armi liberamente in circolazione è più alto di quello della popolazione.
La democrazia americana sta dando una prova di fragilità ma anche di vitalità e forza che si esprimono proprio a partire dalle lacune evidenti manifestate dal sistema elettorale e dalle regole dei passaggi di amministrazione.
Se possiamo riconoscere un merito ad uno come Donald Trump protagonista di una presidenza tanto lacerante per il paese, questo è certamente «aver messo a nudo le debolezze del sistema» (Sabino Cassese). E’ accaduto non certo allo scopo di colmare le deficienze, riparare le falle, ma per sfruttare semmai le debolezze, ricavarne un vantaggio, il futuro al comando. Nessuno come lui, contestando alla radice il meccanismo elettorale, era riuscito a estremizzare la questione del possibile cambiamento di regole.
Il voto postale, che consente di votare senza recarsi personalmente al seggio, ha una storia antica, risalendo ai tempi della guerra civile quando fu introdotto per consentire ai soldati lontani di partecipare alle elezioni. Un accorgimento poi mantenuto a prescindere dai possibili inconvenienti e ora, al tempo della pandemia, doppiamente utile. Consente di non presentarsi ai seggi, di evitare assembramenti. Per questo, è scelto maggiormente dall’elettorato democratico, più sensibile di quello repubblicano ai pericoli d’infezione. Cosa intuita da Trump che infatti ha iniziato a contrastarlo già prima delle elezioni, figurarsi dopo, di fronte alla valanga di schede blu a favore di Biden.
Per quanto strumentalizzato, non c’è dubbio che ai tempi di internet il voto postale sia antiquato: impedisce in un mondo supertecnologico – caso unico – di poter stabilire con certezza ad urna chiuse chi sia il vincitore, anche se dobbiamo riconoscere che, in questa occasione, proprio gli antiquati postini potrebbero aver salvato la democrazia recapitando i voti necessari ad impedire che Trump continui a governare la più grande democrazia del mondo. Il sistema è comunque farraginoso e lento, tanto da sembrare manipolabile.
Trump ha fatto leva su un altro anello debole: la possibile divergenza tra voto popolare e assegnazione dei grandi elettori. Gli americani scelgono i “grandi elettori” di ciascuno Stato non direttamente il presidente che verrà designato da loro in una fase successiva. Il meccanismo ha un’origine nobile mirando a contrastare la “tirannide della maggioranza” (come intuirono John Adams e Alexis De Tocqueville), cioè la prevalenza degli Stati più popolosi, dando peso alle minoranze, in questo caso gli Stati meno abitati. Però comporta l’inconveniente che diventi presidente un candidato che non sia il più votato dalla gente. E’ stato proprio il caso di Hillary Clinton contro lo stesso Donald Trump nel 2006.
La differenza questa volta è che, mentre in tutti gli altri casi l’anomalia, finalizzata ad uno scopo liberale, è stata accettata (la Clinton non ha obiettato nulla), stavolta Trump l’ha contestata appellandosi direttamente – in chiave populista – all’esito del voto popolare a dispetto del numero dei “grandi elettori” ottenuti: lui votato dal popolo con un numero di voti maggiore rispetto al 2006 (vero, ma senza tenere conto che stavolta c’è stata una maggiore partecipazione al voto e anche Biden ha preso più voti che Hillary).
Le domande su quanto Trump potrà fare ora, nella contestazione del risultato elettorale, sono più consistenti per il fatto che i poteri del presidente hanno subito nel tempo una profonda evoluzione. Vi è stata una crescita oltre le intenzioni dei padri fondatori e anche al di là delle prassi instauratesi all’origine. Il presidente concentra molti poteri, con pochi limiti e controlli.
E’ comandante delle forze armate, capo dello Stato federale e del governo, capo del partito che lo ha designato e della maggioranza parlamentare. Nomina sia i giudici federali che quelli della Corte suprema. Può emettere “ordini esecutivi”, ovvero leggi contenenti norme subito operative, senza passare dal congresso.
Gli anni di presidenza hanno portato l’America sull’orlo del baratro per le decisioni in politica estera (rottura delle alleanze tradizionali, contrasti diplomatici con Cina, Corea del Nord, paesi islamici) e gli atteggiamenti in politica interna (continui attacchi all’unità nazionale: crescita dei conflitti, maggiori contraddizioni sociali). È il mito infausto e nocivo dell’ “America great again”, al posto della leadership occidentale.
In questi quattro anni infiniti, in cui è sembrato che non ci fosse nulla nel sistema capace di frenare Trump, sono emerse numerose fragilità istituzionali: è indubbio che i meccanismi concepiti tanti anni fa hanno limiti che la tornata elettorale ha mostrato evidenti.
La Costituzione americana, modello di tutte le democrazie, è del 1787. La legge elettorale è ancora l’Electoral Count Act risalente al 1887. Le date di nascita non sono una colpa. Però il testo costituzionale, il più longevo con i suoi 233 anni di vita, è dotato di una straordinaria capacità di “resistere” alle innovazioni suggerite dallo scorrere del tempo e dai cambiamenti sociali (quando fu varato era un’altra epoca: 13 milioni di abitanti e 2 milioni di schiavi, oggi la popolazione è 25 volte di più).
Nonostante 10.000 emendamenti proposti da allora, soltanto 27 sono stati approvati perché le procedure sono troppo complicate e scoraggianti. Inoltre prevale un atteggiamento conservatore tanto nel diritto quanto nella società, che non sempre ha radici convincenti. Molti giudici si vantano di praticare un’interpretazione testuale delle norme perché più aderente allo spirito (autentico in quanto originario) delle leggi, finendo per negare il processo di necessario adeguamento storico.
Le conseguenze? L’immutabilità dei principi investe tanto diritti considerati universali, come quello fascinoso e suggestivo alla felicità o gli altri – assolutamente condivisibili - sulle libertà democratiche, quanto altri, discutibili o contrastati dal pensiero moderno: la possibilità di comprare armi in quantità e girare armati; la pena di morte, prerogativa dello Stato talvolta sospesa ma mai esclusa in modo esplicito, come invece nella Costituzione italiana, sancendo un sentimento di civiltà proprio della nostra tradizione culturale dopo la lezione di Cesare Beccaria.
Se Donald Trump è ancora un problema per il suo paese e per noi, non si deve concludere che quel modello di democrazia si identifichi solo con le debolezze, non sarebbe giusto e corretto. Il sistema sta mostrando anche una forza interiore attraverso comportamenti e strumenti capaci di contrastare svolte autoritarie.
La straordinaria partecipazione popolare alle ultime elezioni presidenziali (170 milioni di persone, il 67% degli aventi diritto), tra le più alte nel mondo occidentale, è il primo significativo esempio di vitalità mostrato dalla democrazia americana in questa fase. Un fattore di partecipazione che segnala anche il grado di vigilanza esercitato sulle sorti delle istituzioni.
Il secondo fattore politico riguarda la “tendenza moderatrice” spesso presente nella vita pubblica americana, un tipo di approccio ai problemi, una qualità nelle decisioni. Questo metodo attenua gli scontri politici e sociali, favorisce il dialogo tra componenti diverse, incoraggia la pratica del compromesso utile evitando deragliamenti e inciampi.
Non mancano certamente né contraddizioni né diversità anche radicali di vedute. L’inevitabile fragilità del quadro politico è tuttavia compensata da una stabilità rappresentata dalla raccolta della dialettica nell’alveo di (soli) due grandi partiti, in pratica sempre gli stessi, in grado, ciascuno, di coagulare e rappresentare orientamenti anche dissimili, riuscendo a proporne una sintesi ragionevole ed accettabile.
Certo uno come Trump ha monopolizzato la destra estremizzandola nella componente più faziosa (razzista, isolazionista, xenofoba), così come nell’altro schieramento è cresciuto il peso dell’ala radicale. Tuttavia l’esperienza di Joe Biden ha dimostrato la concretezza di un disegno riformatore che ha saputo raccogliere un largo (e maggioritario) consenso, tanto che in esso si sono riconosciuti in tanti: non solo il partito democratico, ma anche parte dell’opinione pubblica repubblicana, la più moderata e critica verso Trump.
Una diretta espressione della ragionevolezza insita nella “tendenza moderatrice” è il principio su cui si fonda ancora il sistema elettorale americano. Il perdente “concede la vittoria” al vincitore riconoscendo la sconfitta e facendogli gli auguri. Il vincitore lo ringrazia pubblicamente e invita tutti a lavorare uniti per il bene del paese. Non si tratta del gesto cavalleresco con cui si chiude una contesa tra gentiluomini, reminiscenza polverosa di un mondo che non esiste più se non in libri che nessuno legge.
Quell’atto, come si diceva, contiene un principio dalle molteplici implicazioni, quasi una regola di vita. Indica il riconoscimento del limite di ogni contrasto personale o politico. Non solo fair play, ma consapevolezza del momento in cui è necessario dire basta, fermarsi, interrompere le polemiche, quando proseguire significa creare danni inaccettabili: al paese, alla collettività, a valori essenziali.
Il punto oggi è proprio questo. L’anomalia è che Trump si pone fuori dal solco di questa tradizione (a cui non si è sottratto il suo competitor Hillary del 2006, come non l’aveva fatto Al Gore contro George Bush nel 2000), minacciando di insistere nell’ostruzionismo a Biden. Eppure pare improbabile che l’eccezione non sia ridimensionata in qualche modo riportando la transizione a normalità: difficile che tutto il partito repubblicano segua il presidente in questa follia. Gli stessi familiari sembra stia lavorando per portarlo a più miti consigli ed è tutto dire.
La società civile è attiva più di prima. E’ la “reazione equilibratrice” provvidenziale in tanti momenti. Trump non è stato mai tenero, ponendosi sempre in conflitto con la scienza e l’informazione. Ha svillaneggiato gli esperti, deridendo gli inviti alla prudenza e alla cautela. A cosa serve la mascherina fastidiosa? Il contenimento ostacola l’economia e la vita di ciascuno, insopportabile. Il virus poi è una storia bastarda, il nemico vero è la Cina che se l’è fatto scappare, certo di proposito per vincere la sfida con la grande America. Ha accusato i media di ogni nefandezza. Le colpe? Solo personali. Le inchieste sulle tasse non pagate o versate all’estero più che in America, sui collegamenti oscuri con Russia e Cina, sulle fake news sparse a piene mani.
Di recente, un fatto insolito specie in Europa: intervistatori delle più importanti reti (Nbc, Cbs, Abc, Cnn) hanno osato interrompere Trump mentre, a scrutini in corso, sproloquiava senza prove su brogli elettorali, schede sparite, complotti da parte del sovversivo Biden. Questo no, presidente, non puoi dirlo. Buon giornalismo certo, anche un contributo al rispetto delle regole di correttezza istituzionale. Non si comporta così un presidente.
Zittire Trump, che lancia accuse infondate (non è neppure la prima volta, in altre lui contrariato s’è alzato e se n’è andato), ha un’importanza civile: disinnesca parole altrimenti incendiarie per una piazza già in fermento e ansiosa di mobilitarsi.
Le reazioni della società civile e della politica sono dimostrazioni di forza e vitalità. La democrazia americana sta dando segnali di resistenza ai soprusi. I contrappesi al potere politico sono dunque indispensabili per irrobustire regole fragili e manovrabili, aiutano tutti a tenere testa a chi furbescamente sa coglierne le debolezze.
La Costituzione scritta può presentare smagliature che si allargano con il tempo: nelle democrazie liberali è essenziale un tessuto giuridico/sociale, in pratica una “costituzione materiale”, che preveda dei “contrappesi”, per limitare l’autorità debordante, prevenire svolte autoritarie, porre un freno al potere che si fa ragione da sé.
In fondo è l’anima irrinunciabile dell’ordinamento, alla base di tutte le libertà. Gli eccessi, gli atteggiamenti minacciosi, financo la violazione delle regole di correttezza sono sempre in agguato. Per questo, oltre all’attenzione e alla vigilanza dei cittadini, conta la capacità di “resistenza” interna alle stesse strutture statali e alla società civile.
Ciò che desta maggiore preoccupazione è il “cuore” di tutto l’atteggiamento di Trump: considerare validi solo una parte delle voti espressi, quelli favorevoli ed espressi ai seggi, non gli altri pervenuti per posta e maggiormente pro Biden; pretendere addirittura che si possa chiudere lo spoglio dei voti una volta raccolti quelli favorevoli e non conteggiare gli altri; minacciare sfracelli pur di non ammettere la sconfitta.
La democrazia americana in ostaggio? La Casa Bianca trasformata in un fortino del vecchio West in cui resistere ad oltranza agli attacchi dei democratici guidati dall’usurpatore Biden? Per quanto tempo ancora, in che modo? E’ una fase politica di estrema delicatezza: l’estrema destra fanatica, infervorata dai tweet di Trump, scalpita in attesa di parole d’ordine; i fans pendono dalle sue labbra; in giro, c’è una polveriera: il numero delle armi liberamente in circolazione è più alto di quello della popolazione.
La democrazia americana sta dando una prova di fragilità ma anche di vitalità e forza che si esprimono proprio a partire dalle lacune evidenti manifestate dal sistema elettorale e dalle regole dei passaggi di amministrazione.
Se possiamo riconoscere un merito ad uno come Donald Trump protagonista di una presidenza tanto lacerante per il paese, questo è certamente «aver messo a nudo le debolezze del sistema» (Sabino Cassese). E’ accaduto non certo allo scopo di colmare le deficienze, riparare le falle, ma per sfruttare semmai le debolezze, ricavarne un vantaggio, il futuro al comando. Nessuno come lui, contestando alla radice il meccanismo elettorale, era riuscito a estremizzare la questione del possibile cambiamento di regole.
Il voto postale, che consente di votare senza recarsi personalmente al seggio, ha una storia antica, risalendo ai tempi della guerra civile quando fu introdotto per consentire ai soldati lontani di partecipare alle elezioni. Un accorgimento poi mantenuto a prescindere dai possibili inconvenienti e ora, al tempo della pandemia, doppiamente utile. Consente di non presentarsi ai seggi, di evitare assembramenti. Per questo, è scelto maggiormente dall’elettorato democratico, più sensibile di quello repubblicano ai pericoli d’infezione. Cosa intuita da Trump che infatti ha iniziato a contrastarlo già prima delle elezioni, figurarsi dopo, di fronte alla valanga di schede blu a favore di Biden.
Per quanto strumentalizzato, non c’è dubbio che ai tempi di internet il voto postale sia antiquato: impedisce in un mondo supertecnologico – caso unico – di poter stabilire con certezza ad urna chiuse chi sia il vincitore, anche se dobbiamo riconoscere che, in questa occasione, proprio gli antiquati postini potrebbero aver salvato la democrazia recapitando i voti necessari ad impedire che Trump continui a governare la più grande democrazia del mondo. Il sistema è comunque farraginoso e lento, tanto da sembrare manipolabile.
Trump ha fatto leva su un altro anello debole: la possibile divergenza tra voto popolare e assegnazione dei grandi elettori. Gli americani scelgono i “grandi elettori” di ciascuno Stato non direttamente il presidente che verrà designato da loro in una fase successiva. Il meccanismo ha un’origine nobile mirando a contrastare la “tirannide della maggioranza” (come intuirono John Adams e Alexis De Tocqueville), cioè la prevalenza degli Stati più popolosi, dando peso alle minoranze, in questo caso gli Stati meno abitati. Però comporta l’inconveniente che diventi presidente un candidato che non sia il più votato dalla gente. E’ stato proprio il caso di Hillary Clinton contro lo stesso Donald Trump nel 2006.
La differenza questa volta è che, mentre in tutti gli altri casi l’anomalia, finalizzata ad uno scopo liberale, è stata accettata (la Clinton non ha obiettato nulla), stavolta Trump l’ha contestata appellandosi direttamente – in chiave populista – all’esito del voto popolare a dispetto del numero dei “grandi elettori” ottenuti: lui votato dal popolo con un numero di voti maggiore rispetto al 2006 (vero, ma senza tenere conto che stavolta c’è stata una maggiore partecipazione al voto e anche Biden ha preso più voti che Hillary).
Le domande su quanto Trump potrà fare ora, nella contestazione del risultato elettorale, sono più consistenti per il fatto che i poteri del presidente hanno subito nel tempo una profonda evoluzione. Vi è stata una crescita oltre le intenzioni dei padri fondatori e anche al di là delle prassi instauratesi all’origine. Il presidente concentra molti poteri, con pochi limiti e controlli.
E’ comandante delle forze armate, capo dello Stato federale e del governo, capo del partito che lo ha designato e della maggioranza parlamentare. Nomina sia i giudici federali che quelli della Corte suprema. Può emettere “ordini esecutivi”, ovvero leggi contenenti norme subito operative, senza passare dal congresso.
Gli anni di presidenza hanno portato l’America sull’orlo del baratro per le decisioni in politica estera (rottura delle alleanze tradizionali, contrasti diplomatici con Cina, Corea del Nord, paesi islamici) e gli atteggiamenti in politica interna (continui attacchi all’unità nazionale: crescita dei conflitti, maggiori contraddizioni sociali). È il mito infausto e nocivo dell’ “America great again”, al posto della leadership occidentale.
In questi quattro anni infiniti, in cui è sembrato che non ci fosse nulla nel sistema capace di frenare Trump, sono emerse numerose fragilità istituzionali: è indubbio che i meccanismi concepiti tanti anni fa hanno limiti che la tornata elettorale ha mostrato evidenti.
La Costituzione americana, modello di tutte le democrazie, è del 1787. La legge elettorale è ancora l’Electoral Count Act risalente al 1887. Le date di nascita non sono una colpa. Però il testo costituzionale, il più longevo con i suoi 233 anni di vita, è dotato di una straordinaria capacità di “resistere” alle innovazioni suggerite dallo scorrere del tempo e dai cambiamenti sociali (quando fu varato era un’altra epoca: 13 milioni di abitanti e 2 milioni di schiavi, oggi la popolazione è 25 volte di più).
Nonostante 10.000 emendamenti proposti da allora, soltanto 27 sono stati approvati perché le procedure sono troppo complicate e scoraggianti. Inoltre prevale un atteggiamento conservatore tanto nel diritto quanto nella società, che non sempre ha radici convincenti. Molti giudici si vantano di praticare un’interpretazione testuale delle norme perché più aderente allo spirito (autentico in quanto originario) delle leggi, finendo per negare il processo di necessario adeguamento storico.
Le conseguenze? L’immutabilità dei principi investe tanto diritti considerati universali, come quello fascinoso e suggestivo alla felicità o gli altri – assolutamente condivisibili - sulle libertà democratiche, quanto altri, discutibili o contrastati dal pensiero moderno: la possibilità di comprare armi in quantità e girare armati; la pena di morte, prerogativa dello Stato talvolta sospesa ma mai esclusa in modo esplicito, come invece nella Costituzione italiana, sancendo un sentimento di civiltà proprio della nostra tradizione culturale dopo la lezione di Cesare Beccaria.
Se Donald Trump è ancora un problema per il suo paese e per noi, non si deve concludere che quel modello di democrazia si identifichi solo con le debolezze, non sarebbe giusto e corretto. Il sistema sta mostrando anche una forza interiore attraverso comportamenti e strumenti capaci di contrastare svolte autoritarie.
La straordinaria partecipazione popolare alle ultime elezioni presidenziali (170 milioni di persone, il 67% degli aventi diritto), tra le più alte nel mondo occidentale, è il primo significativo esempio di vitalità mostrato dalla democrazia americana in questa fase. Un fattore di partecipazione che segnala anche il grado di vigilanza esercitato sulle sorti delle istituzioni.
Il secondo fattore politico riguarda la “tendenza moderatrice” spesso presente nella vita pubblica americana, un tipo di approccio ai problemi, una qualità nelle decisioni. Questo metodo attenua gli scontri politici e sociali, favorisce il dialogo tra componenti diverse, incoraggia la pratica del compromesso utile evitando deragliamenti e inciampi.
Non mancano certamente né contraddizioni né diversità anche radicali di vedute. L’inevitabile fragilità del quadro politico è tuttavia compensata da una stabilità rappresentata dalla raccolta della dialettica nell’alveo di (soli) due grandi partiti, in pratica sempre gli stessi, in grado, ciascuno, di coagulare e rappresentare orientamenti anche dissimili, riuscendo a proporne una sintesi ragionevole ed accettabile.
Certo uno come Trump ha monopolizzato la destra estremizzandola nella componente più faziosa (razzista, isolazionista, xenofoba), così come nell’altro schieramento è cresciuto il peso dell’ala radicale. Tuttavia l’esperienza di Joe Biden ha dimostrato la concretezza di un disegno riformatore che ha saputo raccogliere un largo (e maggioritario) consenso, tanto che in esso si sono riconosciuti in tanti: non solo il partito democratico, ma anche parte dell’opinione pubblica repubblicana, la più moderata e critica verso Trump.
Una diretta espressione della ragionevolezza insita nella “tendenza moderatrice” è il principio su cui si fonda ancora il sistema elettorale americano. Il perdente “concede la vittoria” al vincitore riconoscendo la sconfitta e facendogli gli auguri. Il vincitore lo ringrazia pubblicamente e invita tutti a lavorare uniti per il bene del paese. Non si tratta del gesto cavalleresco con cui si chiude una contesa tra gentiluomini, reminiscenza polverosa di un mondo che non esiste più se non in libri che nessuno legge.
Quell’atto, come si diceva, contiene un principio dalle molteplici implicazioni, quasi una regola di vita. Indica il riconoscimento del limite di ogni contrasto personale o politico. Non solo fair play, ma consapevolezza del momento in cui è necessario dire basta, fermarsi, interrompere le polemiche, quando proseguire significa creare danni inaccettabili: al paese, alla collettività, a valori essenziali.
Il punto oggi è proprio questo. L’anomalia è che Trump si pone fuori dal solco di questa tradizione (a cui non si è sottratto il suo competitor Hillary del 2006, come non l’aveva fatto Al Gore contro George Bush nel 2000), minacciando di insistere nell’ostruzionismo a Biden. Eppure pare improbabile che l’eccezione non sia ridimensionata in qualche modo riportando la transizione a normalità: difficile che tutto il partito repubblicano segua il presidente in questa follia. Gli stessi familiari sembra stia lavorando per portarlo a più miti consigli ed è tutto dire.
La società civile è attiva più di prima. E’ la “reazione equilibratrice” provvidenziale in tanti momenti. Trump non è stato mai tenero, ponendosi sempre in conflitto con la scienza e l’informazione. Ha svillaneggiato gli esperti, deridendo gli inviti alla prudenza e alla cautela. A cosa serve la mascherina fastidiosa? Il contenimento ostacola l’economia e la vita di ciascuno, insopportabile. Il virus poi è una storia bastarda, il nemico vero è la Cina che se l’è fatto scappare, certo di proposito per vincere la sfida con la grande America. Ha accusato i media di ogni nefandezza. Le colpe? Solo personali. Le inchieste sulle tasse non pagate o versate all’estero più che in America, sui collegamenti oscuri con Russia e Cina, sulle fake news sparse a piene mani.
Di recente, un fatto insolito specie in Europa: intervistatori delle più importanti reti (Nbc, Cbs, Abc, Cnn) hanno osato interrompere Trump mentre, a scrutini in corso, sproloquiava senza prove su brogli elettorali, schede sparite, complotti da parte del sovversivo Biden. Questo no, presidente, non puoi dirlo. Buon giornalismo certo, anche un contributo al rispetto delle regole di correttezza istituzionale. Non si comporta così un presidente.
Zittire Trump, che lancia accuse infondate (non è neppure la prima volta, in altre lui contrariato s’è alzato e se n’è andato), ha un’importanza civile: disinnesca parole altrimenti incendiarie per una piazza già in fermento e ansiosa di mobilitarsi.
Le reazioni della società civile e della politica sono dimostrazioni di forza e vitalità. La democrazia americana sta dando segnali di resistenza ai soprusi. I contrappesi al potere politico sono dunque indispensabili per irrobustire regole fragili e manovrabili, aiutano tutti a tenere testa a chi furbescamente sa coglierne le debolezze.
La Costituzione scritta può presentare smagliature che si allargano con il tempo: nelle democrazie liberali è essenziale un tessuto giuridico/sociale, in pratica una “costituzione materiale”, che preveda dei “contrappesi”, per limitare l’autorità debordante, prevenire svolte autoritarie, porre un freno al potere che si fa ragione da sé.
In fondo è l’anima irrinunciabile dell’ordinamento, alla base di tutte le libertà. Gli eccessi, gli atteggiamenti minacciosi, financo la violazione delle regole di correttezza sono sempre in agguato. Per questo, oltre all’attenzione e alla vigilanza dei cittadini, conta la capacità di “resistenza” interna alle stesse strutture statali e alla società civile.
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