di Marina Zinzani
Le mani che abbracciano il pallone d’oro, il suo avvicinarsi all’Olimpo: essere un semidio, o un dio riconosciuto, in grado di regalare emozioni e felicità da una cornucopia magica.
Velata dal rimpianto, per qualcosa che svanisce, per ricordi lontani oggi riaccesi, per una realtà così diversa da quella di ora, in questo momento imprevedibile e tragico che stiamo vivendo.
Maradona, nato povero, elevatosi a divinità con le sue forze, ha conosciuto tanto altro, oltre agli onori sconfinati, all’affetto delle persone. Come un dio precario, che non conosceva le leggi della natura, che non aveva portato con sé i viveri, gli indumenti necessari e almeno una pila per affrontare la notte, quando è sceso il crepuscolo si è ritrovato spaventato, confuso, solo. Le perle magiche che gli hanno fatto trovare altri dei, forse invidiosi, certo cattivi, erano dei veleni che dovevano deturparne il corpo, corpo irriconoscibile che ha fatto dimenticare che lui per molti era stato un dio.
Quel dio perduto così presto si rimpiange, diventa tutto struggente, sembra leggera anche la sua vita di gossip e di donne, di eccessi, sembra anche così disarmante il suo racconto fragile fra le lacrime di cosa ha rappresentato la droga, un dio umano, sconfitto, poi rialzato. Con sottofondo quel campo di calcio, quella palla che era stata la bacchetta magica, diventata poi umile giunco.
Però i sogni restano, i ricordi, le emozioni. Il dio ha regalato tanti momenti bellissimi. Quelli rimangono. Nella tragicità di questa storia, sappiamo che qualcuno l’ha chiamato a sé, nell’Olimpo assieme agli altri dei. L’ha chiamato troppo presto, e il mondo si è svegliato scoprendo quanto è stato importante il sogno, e quanto sono stati preziosi i sui regali. Primo fra tutti la passione, il suscitare passione.
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