Proteste, perché la seconda ondata Covid era prevedibile. I sussidi sono indispensabili, ma serve un futuro più sostenibile
(Angelo Perrone) La crescita dei contagi Covid ha imposto misure che pensavamo d’esserci lasciati alle spalle. Era inevitabile dopo gli errori e i ritardi dei mesi scorsi. Così siamo al lockdown parziale e chissà se servirà a breve una terapia d’urto come quella del marzo scorso.
Non siamo ad un piano di rilancio dell’economia, come ci auguravamo dopo la fine d’estate. Ancora una volta il governo, in affanno ed a tentoni di fronte all’emergenza, è costretto a interventi tampone per limitare i danni, e far fronte al disagio delle categorie costrette a chiudere le attività.
Non c’è il salto di qualità che sarebbe necessario, ma un semplice “ristoro”, pure indispensabile in questa fase critica. Non è chiaro se la parola serva a indicare il sollievo morale e materiale offerto in una situazione difficile, oppure debba essere interpretata come (implicita) ammissione di colpa per i troppi errori di questi mesi. Certo è che il flusso di sussidi, a riparazione dei danni, suona come fallimento politico.
La politica tutta mostra d’essere impreparata davanti all’ondata del virus, priva di idee contro il contagio. L’affanno del governo e la natura dell’intervento (tagli lineari, non selettivi, un po’ approssimativi) ne sono controprova. Si prospetta un incremento della recessione per le chiusure disposte.
Ci si stava appena risollevando, e siamo di nuovo in difficoltà. Le conseguenze sanitarie ed economiche sono enormi. Il guaio è che non era affatto imprevedibile la nuova pesante ondata.
Le misure, inevitabili per la recrudescenza del virus mai debellato, indicano l’incapacità di Stato e Regioni di organizzarsi a tempo, di avere una visione strategica, scevra dall’illusione che il pericolo sia superato.
Il ritorno alla normalità era un’aspirazione comprensibile dopo i mesi difficili della clausura, ma il virus non è stato debellato. La gran voglia di lasciarsi alle spalle il brutto passato insieme agli sforzi fatti per recuperare i danni e rimettere in moto le attività hanno giocato un brutto scherzo. Facendo dimenticare che l’allarme non era cessato e che occorreva prepararsi.
Nulla o troppo poco è stato fatto per la seconda ondata, inevitabile alla fine dell’estate con il ritorno a scuola, la ripresa delle attività lavorative in presenza, insomma l’aumento del rischio del contagio. Poi certo sono arrivati gli episodi più acuti: sguaiate baldorie estive, movide scriteriate, abbandono strisciante delle precauzioni, allentamento dell’attenzione.
I segnali erano chiari. Il virus non richiedeva solo interventi rivolti alla “sicurezza statica” (distanze nei luoghi di studio e lavoro, posizioni dietro un banco o una scrivania, controlli degli accessi, mascherine da indossare, gel da usare), serviva lavorare sul “movimento” della gente, all’origine dei contatti più pericolosi.
Lo sapevamo ed è stato detto. Sarebbe stata esplosiva la questione dei trasporti, che riguarda una massa enorme di persone (22 milioni) costretta a muoversi in modo pericoloso. Tutta insieme, nello stesso tempo e per lo più con mezzi pubblici inadeguati per numero, caratteristiche, spazi. Non sarebbe stato possibile garantire alcuna regola di sicurezza. Come si fa a stare distanti se gli spazi non ci sono sui bus affollati, nei treni stracolmi di pendolari, nei vagoni metro gremiti all’inverosimile? Come difendersi se tutti escono di casa allo stesso orario; se l’ingresso nelle scuole e nelle fabbriche non è scaglionato?
Non si è pensato ad impiegare il gran numero di bus fermi per la crisi turistica, né a diversificazione gli orari di accesso a scuola o sul lavoro. Un fenomeno, quello dell’assembramento durante gli spostamenti, più consistente nei grandi centri urbani dove la circolazione delle persone è massima in spazi limitati determinando maggiori contagi. Ed infatti le zone più critiche sono proprio i grandi agglomerati urbani, non le campagne.
La stretta ha finito così per dare un taglio lineare, inevitabilmente grossolano in nome del “chiudiamo qualcosa per limitare i movimenti”. Talvolta ha colpito alla cieca e in modo ingiusto anche realtà dove non c’erano stati contagi, cinema, teatri, palestre. Oltre al danno economico, una penalizzazione della cultura, che in questo momento sarebbe una risorsa psicologica per sopravvivere.
Non c’è stato buon senso, e tanto meno si è dato ascolto a studiosi e scienziati. L’estate registrava un calo nei contagi solo perché c’erano condizioni favorevoli (vita all’aperto, vacanze in luoghi meno affollati, chiusura di scuole e fabbriche). Non perché il virus fosse scomparso, come potevano pensare i più sprovveduti od ignoranti.
Solo gente come Donald Trump, o Boris Johnson, o Bolsonaro, e, da noi, manifestanti no mask, politici in cerca di plauso elettorale, esperti eccentrici storditi dalla notorietà televisiva, continuava imperterrita a sproloquiare nei media, sbandierando a sproposito il vessillo delle libertà conculcate.
Dopo i mesi duri della primavera è subentrato un clima di rilassatezza non solo a livello individuale: è grave che non si sia agito in tempo quando la situazione era più tranquilla: migliorare le strutture sanitarie, aumentare i posti della terapia intensiva, assumere personale, cambiare il modello di assistenza rendendolo più diffuso sul territorio e quindi più solerte, correggendo certe storture regionali.
Lo sapevamo ed è stato detto. Sarebbe stata esplosiva la questione dei trasporti, che riguarda una massa enorme di persone (22 milioni) costretta a muoversi in modo pericoloso. Tutta insieme, nello stesso tempo e per lo più con mezzi pubblici inadeguati per numero, caratteristiche, spazi. Non sarebbe stato possibile garantire alcuna regola di sicurezza. Come si fa a stare distanti se gli spazi non ci sono sui bus affollati, nei treni stracolmi di pendolari, nei vagoni metro gremiti all’inverosimile? Come difendersi se tutti escono di casa allo stesso orario; se l’ingresso nelle scuole e nelle fabbriche non è scaglionato?
Non si è pensato ad impiegare il gran numero di bus fermi per la crisi turistica, né a diversificazione gli orari di accesso a scuola o sul lavoro. Un fenomeno, quello dell’assembramento durante gli spostamenti, più consistente nei grandi centri urbani dove la circolazione delle persone è massima in spazi limitati determinando maggiori contagi. Ed infatti le zone più critiche sono proprio i grandi agglomerati urbani, non le campagne.
La stretta ha finito così per dare un taglio lineare, inevitabilmente grossolano in nome del “chiudiamo qualcosa per limitare i movimenti”. Talvolta ha colpito alla cieca e in modo ingiusto anche realtà dove non c’erano stati contagi, cinema, teatri, palestre. Oltre al danno economico, una penalizzazione della cultura, che in questo momento sarebbe una risorsa psicologica per sopravvivere.
Non c’è stato buon senso, e tanto meno si è dato ascolto a studiosi e scienziati. L’estate registrava un calo nei contagi solo perché c’erano condizioni favorevoli (vita all’aperto, vacanze in luoghi meno affollati, chiusura di scuole e fabbriche). Non perché il virus fosse scomparso, come potevano pensare i più sprovveduti od ignoranti.
Solo gente come Donald Trump, o Boris Johnson, o Bolsonaro, e, da noi, manifestanti no mask, politici in cerca di plauso elettorale, esperti eccentrici storditi dalla notorietà televisiva, continuava imperterrita a sproloquiare nei media, sbandierando a sproposito il vessillo delle libertà conculcate.
Dopo i mesi duri della primavera è subentrato un clima di rilassatezza non solo a livello individuale: è grave che non si sia agito in tempo quando la situazione era più tranquilla: migliorare le strutture sanitarie, aumentare i posti della terapia intensiva, assumere personale, cambiare il modello di assistenza rendendolo più diffuso sul territorio e quindi più solerte, correggendo certe storture regionali.
Il sacrificio che viene richiesto ora è molto pesante, qua e là percepito – non a torto - come intollerabile e persino ingiusto dopo i sacrifici fatti in vista del ritorno alla normalità. Insegnanti e studenti avevano tenuto duro con le lezioni a distanza. Tanti si erano arrangiati in attesa di rientrare al lavoro. Il contraccolpo emotivo ora è forte, a cosa è servito il precedente lockdown, (sacrificando le libertà individuali, perdendo il posto) se siamo allo stesso punto?
Le proteste di questi giorni sono di varia natura e non devono essere confuse tra loro. Si sono intrufolati estremisti, ultras di tutte le risme, criminali pronti a menare le mani e a soffiare sul fuoco. Lo scopo: alimentare le rivolte, creare disordini. A prescindere dal motivo strumentalizzato. Nulla da spartire con la gente preoccupata seriamente per la chiusura delle attività.
I violenti vanno isolati e puniti. Le provocazioni respinte. Ma va distinto il disagio manifestato da tante categorie. Un discorso serio e fondato. Sono imprenditori, operai, autonomi, impiegati. L’immenso mondo del sommerso. Che hanno utilizzato le ultime risorse per salvare il lavoro, speravamo di riprenderlo. Si sono barcamenati. Speravano di vedere la luce in fondo al tunnel. Gente comune che vede andare in fumo sforzi e sacrifici.
E’ una convergenza di fattori che rende più grave la situazione dell’Italia rispetto al resto d’Europa: il più alto numero di lavoratori autonomi; la diffusa economia priva di tutele: l’alta percentuale di famiglie monoreddito. Il rischio di cadere nel “buco nero” della sofferenza economica è altissimo.
Il governo rassicura e promette, interverrà ad aiutare. Ma c’è sfiducia, non a sproposito. Lo Stato è pagatore lento. Con due facce contraddittorie: diffidente nei confronti di chi ha bisogno tanto da frapporre mille ostacoli, incredibilmente prodigo verso chi non ha diritto e si approfitta della situazione per speculare, come hanno fatto certi parlamentari chiedendo i sussidi precedenti.
Il rischio è che si allarghi la forbice tra i garantiti (numero sempre più esiguo) e tutti gli altri, che non possono contare su alcuna sicurezza e vedono precario il futuro. Le diseguaglianze possono crescere, lacerando il tessuto sociale.
Intanto l’azione del governo è accompagnata dai soliti litigi interni, offuscata dalla disarmonia e dalla mancanza di solidarietà. Soprattutto si percepisce l’assenza di una chiara visione del futuro, come se non ci fossero energie e idee. Difetta la credibilità. Non c’è autorevolezza nel pretendere il rigore. Unica direttiva tamponare le falle. Rincorrere il virus, non prevenirne le mosse.
Le proteste di questi giorni sono di varia natura e non devono essere confuse tra loro. Si sono intrufolati estremisti, ultras di tutte le risme, criminali pronti a menare le mani e a soffiare sul fuoco. Lo scopo: alimentare le rivolte, creare disordini. A prescindere dal motivo strumentalizzato. Nulla da spartire con la gente preoccupata seriamente per la chiusura delle attività.
I violenti vanno isolati e puniti. Le provocazioni respinte. Ma va distinto il disagio manifestato da tante categorie. Un discorso serio e fondato. Sono imprenditori, operai, autonomi, impiegati. L’immenso mondo del sommerso. Che hanno utilizzato le ultime risorse per salvare il lavoro, speravamo di riprenderlo. Si sono barcamenati. Speravano di vedere la luce in fondo al tunnel. Gente comune che vede andare in fumo sforzi e sacrifici.
E’ una convergenza di fattori che rende più grave la situazione dell’Italia rispetto al resto d’Europa: il più alto numero di lavoratori autonomi; la diffusa economia priva di tutele: l’alta percentuale di famiglie monoreddito. Il rischio di cadere nel “buco nero” della sofferenza economica è altissimo.
Il governo rassicura e promette, interverrà ad aiutare. Ma c’è sfiducia, non a sproposito. Lo Stato è pagatore lento. Con due facce contraddittorie: diffidente nei confronti di chi ha bisogno tanto da frapporre mille ostacoli, incredibilmente prodigo verso chi non ha diritto e si approfitta della situazione per speculare, come hanno fatto certi parlamentari chiedendo i sussidi precedenti.
Il rischio è che si allarghi la forbice tra i garantiti (numero sempre più esiguo) e tutti gli altri, che non possono contare su alcuna sicurezza e vedono precario il futuro. Le diseguaglianze possono crescere, lacerando il tessuto sociale.
Intanto l’azione del governo è accompagnata dai soliti litigi interni, offuscata dalla disarmonia e dalla mancanza di solidarietà. Soprattutto si percepisce l’assenza di una chiara visione del futuro, come se non ci fossero energie e idee. Difetta la credibilità. Non c’è autorevolezza nel pretendere il rigore. Unica direttiva tamponare le falle. Rincorrere il virus, non prevenirne le mosse.
Il difetto di strategia comporta il pericolo del collasso per eccesso di spesa pubblica. Sia chiaro. E’ giusto ed inevitabile sostenere in tutti i modi le persone e le aziende in difficoltà, e da questo punto di vista gli aiuti non possono essere lesinati e devono arrivare a destinazione subito, non come l’altra volta.
Non basta però. Servono progetti per l’avvenire. Idee per il futuro. Affinché i sussidi diventino il volano della ripresa di domani. Devono essere pensati con questo obiettivo, finalizzati anche a scopi di ricostruzione in vista della nuova normalità. Questa situazione dobbiamo prepararla fin d’ora. E non c’è modo migliore che indirizzare i contributi sia al sostentamento immediato che verso processi di trasformazione delle strutture economiche.
Il disagio che si manifesta di fronte alle misure deriva dalla percezione che i sacrifici non abbiano un fine, non servano a migliorare la vita, nostra e delle generazioni future, che sono le più precarie, come sempre. E’ su questo aspetto che l’intervento dello Stato deve essere più esplicito.
Un paese non può vivere solo di debiti, anche se indispensabili. Non esistono magie per sopravvivere, come sarebbe se ci mettessimo a stampare moneta forsennatamente senza pensare a come finanziarsi realmente. Il peso di un prestito così mostruoso ricadrebbe sui figli e sarebbe insopportabile. Impossibile uscirne.
Lo Stato ha la responsabilità della scelta delle cose da fare. Non può dimenticare l’esperienza del disastroso accumulo di debito pubblico tra il 1960 e il 1990 dovuto ad una spesa pubblica incontrollata e non finalizzata alla crescita.
Sarebbe pericoloso che l’emergenza sanitaria spingesse la rotta dello Stato verso un interventismo statale asfissiante ed inutile, sotto forma di assistenzialismo o di dirigismo economico. Al contrario, proprio ora, serve certamente il massimo di protezione e sostegno, ma occorrono pure scelte selettive. In economia orientate verso lo sviluppo, nella sanità dirette a circoscrivere casi e zone di maggior criticità.
L’epidemia dovrebbe insegnarci che un paese non può vivere di bonus e sussidi indiscriminati per lungo tempo, senza preoccuparsi di chi li produce e finanzia, trascurando che un giorno ne verrà chiesto il conto. E sarà salato.
Dovrebbe invece diffondersi la convinzione che ci sono settori nei quali l’azione dello Stato è assolutamente necessaria anche ora che la pandemia rende tutto complicato e difficile. Qui è proprio indispensabile che l’intervento sia massiccio perché vi siano ricadute positive sulle dinamiche economiche, e sullo sviluppo. Pensiamo alla sanità, alle infrastrutture, all’ambiente, al digitale.
E’ auspicabile un forte sistema di investimenti sulle strutture di base. Quelle di cui hanno bisogno imprese e lavoratori per fare meglio e di più. Servirebbe nel presente per dare lavoro e mantenere la produttività, ma ancor più per il futuro, contribuendo a realizzare le condizioni per la crescita del paese e il suo rinnovamento.
Non basta però. Servono progetti per l’avvenire. Idee per il futuro. Affinché i sussidi diventino il volano della ripresa di domani. Devono essere pensati con questo obiettivo, finalizzati anche a scopi di ricostruzione in vista della nuova normalità. Questa situazione dobbiamo prepararla fin d’ora. E non c’è modo migliore che indirizzare i contributi sia al sostentamento immediato che verso processi di trasformazione delle strutture economiche.
Il disagio che si manifesta di fronte alle misure deriva dalla percezione che i sacrifici non abbiano un fine, non servano a migliorare la vita, nostra e delle generazioni future, che sono le più precarie, come sempre. E’ su questo aspetto che l’intervento dello Stato deve essere più esplicito.
Un paese non può vivere solo di debiti, anche se indispensabili. Non esistono magie per sopravvivere, come sarebbe se ci mettessimo a stampare moneta forsennatamente senza pensare a come finanziarsi realmente. Il peso di un prestito così mostruoso ricadrebbe sui figli e sarebbe insopportabile. Impossibile uscirne.
Lo Stato ha la responsabilità della scelta delle cose da fare. Non può dimenticare l’esperienza del disastroso accumulo di debito pubblico tra il 1960 e il 1990 dovuto ad una spesa pubblica incontrollata e non finalizzata alla crescita.
Sarebbe pericoloso che l’emergenza sanitaria spingesse la rotta dello Stato verso un interventismo statale asfissiante ed inutile, sotto forma di assistenzialismo o di dirigismo economico. Al contrario, proprio ora, serve certamente il massimo di protezione e sostegno, ma occorrono pure scelte selettive. In economia orientate verso lo sviluppo, nella sanità dirette a circoscrivere casi e zone di maggior criticità.
L’epidemia dovrebbe insegnarci che un paese non può vivere di bonus e sussidi indiscriminati per lungo tempo, senza preoccuparsi di chi li produce e finanzia, trascurando che un giorno ne verrà chiesto il conto. E sarà salato.
Dovrebbe invece diffondersi la convinzione che ci sono settori nei quali l’azione dello Stato è assolutamente necessaria anche ora che la pandemia rende tutto complicato e difficile. Qui è proprio indispensabile che l’intervento sia massiccio perché vi siano ricadute positive sulle dinamiche economiche, e sullo sviluppo. Pensiamo alla sanità, alle infrastrutture, all’ambiente, al digitale.
E’ auspicabile un forte sistema di investimenti sulle strutture di base. Quelle di cui hanno bisogno imprese e lavoratori per fare meglio e di più. Servirebbe nel presente per dare lavoro e mantenere la produttività, ma ancor più per il futuro, contribuendo a realizzare le condizioni per la crescita del paese e il suo rinnovamento.
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