Bambine all'uscita di scuola, prima dei talebani |
Nonostante il fallimento in Afghanistan, la democrazia rimane un valore universale: i diritti umani sono comuni a tutti
(Angelo Perrone) La caduta di Kabul ha avuto un forte impatto nell’immaginario collettivo. Le immagini della fuga precipitosa dal paese destano scandalo e preoccupazione. Emozionano e indignano. Interrogano la coscienza di ciascuno sulle scelte di politica internazionale, e sui rapporti con gli altri popoli. Quali valori ci sono davvero cari? Per cosa, saremmo disposti a batterci?
L’esito infausto della missione afgana, che ha visto la partecipazione di più paesi occidentali, un esborso colossale di denaro e tanti sacrifici umani, ha forse rafforzato la convinzione che sia impossibile migliorare in modo significativo la condizione di paesi tanto diversi per culture, stili di vita, economia.
In una parola, qualunque tentativo di “esportare la democrazia” è destinato, prima o poi, all’insuccesso? Troppo diverse le condizioni di base per coltivare tale fragile speranza. La presenza occidentale non è servita a costituire istituzioni capaci di resistere alla barbarie talebana.
La democrazia non è certamente merce che possa essere trasferita da un paese all’altro, senza difficoltà o problemi. O che possa svilupparsi facilmente, senza un percorso lungo e complesso. Ma troppo spesso si avverte una lettura pessimistica della storia, un’incredulità rispetto alle prospettive di cambiamento.
Radicali diversità contrassegnano il mondo alle varie latitudini e ciò renderebbe impossibile “trapiantare” o far “germogliare” un seme estraneo e nuovo. La democrazia sarebbe il prodotto tipico delle società occidentali, un sistema impraticabile altrove, dove i costumi, le usanze, le idee sono di altro tipo.
Del resto c’è un legame inscindibile tra ciascun assetto giuridico e ogni popolazione; non potrebbe essere diversamente. Allora, il diritto all’autodeterminazione porterebbe alla conclusione di dover rispettare le scelte di ciascuno per quanto palesemente contrarie al senso di civiltà, al rispetto dei diritti umani, alla tutela della vita.
Questo punto di vista non è affatto nuovo, riemerge ogni volta che scoppiano crisi internazionali in paesi lontani o comunque diversi (in Africa, Medio-Oriente, ma non solo. Dietro alle dotte discussioni su cosa si intenda per democrazia (regole giuridiche, istituzioni, modelli sociali?), c’è il problema della definizione della natura dei valori democratici e del loro rapporto con lo sviluppo reale delle popolazioni.
In nessun contesto, è stato facile superare la legge dell’uomo selvaggio e avviare il cambiamento. Il rispetto dei diritti individuali, le regole di convivenza, i metodi di formazione del consenso non si sono affermati mai con facilità, senza un miglioramento delle condizioni della gente, la crescita culturale ed economica di ciascuno: scuole, sanità, lavoro.
La “concezione relativistica della democrazia” come prodotto esclusivo di alcuni, e perciò estranea a tutti gli altri, sconta un’arretratezza di fondo nella conoscenza del modo in cui le istituzioni liberali sono nate e abbiano potuto attecchire ovunque in rapporto alla diversità dei contesti.
Innumerevoli sono stati i passi compiuti attraverso secoli, sino ad oggi, in cui è diffuso un convincimento largamente condiviso tra la gente, e assunto dalle stesse organizzazioni internazionali.
La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 ha fatto riferimento alla prospettiva mondiale di “una società democratica” e su questa base la successiva dichiarazione delle Nazioni unite del 2000 ha previsto l’impegno “a promuovere la democrazia” e a rafforzare la capacità di tutti i paesi di “realizzarne i principi e le pratiche”.
La democrazia è dunque un diritto di tutti i popoli perché si fonda su valori universali, che appartengono senza eccezioni a qualsiasi realtà umana, nonostante le diversità di convincimenti religiosi, politici od economici. Piuttosto, da queste differenze dipende la possibilità di dare applicazioni molteplici a quegli stessi principi.
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