Processo a Oscar Wilde |
di Marina Zinzani
“Solo io posso giudicarmi. Io so il mio passato, io so il motivo delle mie scelte, io so quello che ho dentro. Io so quanto ho sofferto, io so quanto posso essere forte e fragile, io e nessun altro.” (Oscar Wilde)
I giudici sono dappertutto, agli angoli di strada, nei talk show, negli androni dei palazzi, ai giardini. Si nascondono, si camuffano, e appaiono, se appaiono, sempre con il sorriso sulle labbra. La cordialità è il loro forte, sono specializzati in questo.
I giudici sanno come si deve vivere, e quali sono le regole, sanno che vanno rispettate, e si sentono investiti di un misterioso potere: si parte da un giudizio, e la persona, come per pura magia, più sortilegio, viene investita di caratteristiche particolari. È identificata, riscritta la sua identità, è quella che appare agli occhi di tutti: l’identità è quindi quella attribuita da loro. Lo sapeva bene Pirandello.
I giudici sono figure tristi. Spesso hanno quintali di spazzatura in casa e si fermano a guardare la carta gettata via da un bambino. Hanno il volto truccato ma sono trucchi che hanno sepolto la loro genuinità, se mai c’è stata, forse da piccoli c’era. Sono figure che si occupano delle vite degli altri perché la loro è in vuoto, e la violenza che si portano dentro si esprime nel volere condannare chi non la pensa come loro.
Mentre nessuno sa meglio di sé stesso, di ciò che è stato, di ciò che ha provato, del perché le cose sono andate in un certo modo. Purtroppo, questi giudici invisibili hanno poteri magici, entrano nel cervello, e diventano parlanti. E quella vocina allora continua il loro cicaleccio fastidioso.
Triste la vita dei giudici. Vivere la propria vita in santa pace no?
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