Un importante pranzo
di lavoro e il disagio di una ragazza anoressica
di Marina Zinzani
Domani
sarà una giornata impegnativa al lavoro. Non mi spaventa tanto la giornata, io
ho preparato quello che dovevo preparare, il direttore mi ha detto che ho fatto
un buon lavoro. Arriverà un grosso cliente cinese, Mister Chang, e ci saranno
anche dei suoi accompagnatori, non ho capito bene. Io sono nuova in questo
lavoro, sono qui solo da sei mesi. Ho un contratto a termine, ma il direttore
mi ha già fatto capire che mi verrà rinnovato, che mi attendono molte cose.
Parla al futuro, crede che io sarò una buona assistente.
Domani
si va a pranzo con Mister Chang e i suoi collaboratori, con il direttore e
qualcun altro della società, a quanto ho capito. Io pensavo di non dovere
andare, ma il lavoro di pubbliche
relazioni un po’ lo devo fare. Non sarò l’unica donna, c’è anche una collega,
bisogna far sentire questo cliente cinese a proprio agio. Andremo in un bel
ristorante, il direttore ha prenotato in un ristorante rinomato per la tipica
cucina milanese.
Io,
da quando ho saputo che devo andare a pranzo con loro, penso. Penso a come fare
per non andarci. Penso e mi dico che ci
deve essere un modo per non esserci, lì, domani, a mangiare con loro.
Io
non ho fame. Non da un giorno. Non da una settimana. Da due anni. Io ho
problemi a finire anche mezzo piatto di pasta. Se mi impegno, ci metto
mezz’ora. A piccoli bocconi, lentamente. Ma fa fatica ad andare giù, lo stomaco
è come chiuso. E io non sento, non sento, il sapore del cibo.
Sto
pensando anche adesso, che è sera, e sto tornando a casa da lavorare. Devo
farmi forza, camuffare questo problema. Oddio, con tutte le donne che fanno le
diete! Dirò che sono a dieta, che ho cominciato da poco una dieta che prevede
poche cose, quasi saltare a pranzo. Ecco, mi sembra una buona scusa. Posso
giusto assaggiare qualcosa, tanto per fare compagnia… Ecco, posso usare questa
scusa, mi sembra una buona scusa. Sono ferma al semaforo. Mi guardo allo
specchio. Ma guardati. Dieta! Hai proprio la faccia di una che deve fare la
dieta! Non peserai neanche quarantacinque chili, diranno, e fai la dieta!
Penseranno che sono ossessionata dalla linea. Penseranno male di me. Sono con
un contratto a tempo determinato, non devo dimenticarlo. Devo fare buona
impressione.
E
se dicessi che ho mal di stomaco, che ho avuto un imbarazzo durante la notte,
forse ho mangiato qualcosa di scaduto… No, malata, debole, no… Mal di stomaco…
Si dice ancora? Ricorda i bambini che hanno mal di stomaco, quelli che prendono
il latte freddo dal frigorifero e lo bevono e poi stanno male… No, no… Dà
l’impressione della malata…
Beh,
mal di testa, questo succede, il lavoro che mi hanno affidato è impegnativo,
posso dire che ho un lieve mal di testa, e un po’ di nausea viene con il mal di
testa, ci sta. Succede a chi fa dei lavori di concetto, e io ho lavorato molto
in questo progetto. Sono giovane, ma la volontà non mi manca, ho fatto anche
tanti straordinari per presentare tutte le carte e fare buona impressione. Ne
va del mio futuro, lo so, almeno quello lavorativo. Perché questo, mi è chiaro,
è un buon lavoro, un ottimo lavoro, e io non voglio perderlo.
Cosa
posso fare domani… Ci sarebbe un altro modo, forse questo potrebbe giustificare
un’improvvisa assenza mia, e nessuno avrebbe da commentare… Mentre siamo al
ristorante, o ancora in ditta, faccio finta di ricevere una telefonata, il
telefono è solo in vibrazione, e io faccio finta di parlare… Mia madre, mia
madre si è sentita male, è caduta, devo scappare da lei. Per poi tornare
regolarmente dopo un paio d’ore, per riprendere la lunga giornata. Perché dura
tutto il giorno, l’incontro con i cinesi.
Come
ti sembra, l’idea? Di fronte ad una disgrazia nessuno può dire niente. Anzi, si
preoccuperebbero di mia madre, io potrei fare buona impressione, una che si
divide fra il lavoro, a cui dà il massimo, sempre puntuale, disponibile, e la
vita affettiva, premurosa verso la madre. Mia madre…
Certo,
quelli devono concludere un contratto da milioni di euro, e io metto in mezzo
mia madre che è caduta dalle scale. O si è sentita male. Debole la madre, forse
debole anche la figlia. Brutta impressione, questi parleranno di New York,
delle sedi in India, e io scappo via per la mamma. Come faccio a dirlo al
direttore? Certo, dovrei usare un linguaggio diplomatico, “Devo assentarmi un
paio d’ore per un problema urgente”… Mah…
Comunque,
nel ristorante in cui dobbiamo andare,
ci sono stata una volta. Ricordo bene che mettevano sul tavolo le
pirofile, e alla fine, insomma, non sarà
poi difficile prendere due forchettate, uno non guarda quanta roba metto nel
piatto…
Ho
anche pensato alle allergie, sono allergica a… a quello che si presenta in
tavola, non scelto da me, chiaramente. Quello che c’è nei piatti di portata.
Soffro di allergia proprio per quell’alimento… Ma lo sento già il direttore, “Prendi
un’altra cosa, allora…”, già, e io che faccio, facile a dirsi, io cosa faccio,
cosa faccio domani… speriamo nella pirofila…
Sono
magra, lo so. Ma mi metto abiti larghi, pantaloni larghi. In faccia non si vede
poi tanto, sì, sono filiforme, ma è soprattutto nelle braccia e nelle gambe che
si vede. Peso poco, per la mia altezza. Ho le gambe di quelle indossatrici che
sembrano manichini.
So
solo una cosa, domani farò una brutta figura, me lo sento, me lo sento…
Tutto
bene. “Brava, signorina” mi hanno detto i cinesi. Il direttore mi guarda
soddisfatto. Mi ha scelto lui, certo avevo un buon curriculum, laureata con il
massimo dei voti, ho lavorato in un’altra azienda ed avevo buone referenze.
Quando le cose vanno bene, lui si prende i meriti, ma anch’io sono soddisfatta.
L’ambiente di lavoro mi piace, il direttore è uno che sa valorizzare il
personale, cosa rara questa, lo sa stimolare e qualche complimento, ogni tanto,
lo fa. Bene, tutto procede bene, tutto va come deve andare.
Durante
la notte, insonne fra l’altro, mi è venuta un’idea, e io, arrivando di buon’ora
in ufficio stamattina, ne ho parlato subito con il direttore. Andare a mangiare
a pranzo in un locale… non un locale normale, ma di quelli che hanno grandi
piatti e due cosine in centro, piccole, strane, lunghi nomi per spiegare cibi
insoliti, abbinamenti arditi… Ecco, il locale, di cui ho sentito parlare,
rinomato e alla moda, potrebbe essere interessante per i cinesi… Il pensiero era geniale, in fondo. Cibo
strano, poco soprattutto, e quel cibo strano è sì.. un po’ troppo innovativo,
non tutti amano gusti insoliti, e io… forse preferisco altri sapori… Ecco, se
la scena si presenta così, nessuno si accorgerebbe di me, del mio piatto ancora
pieno. Pieno… danno poi due cose in croce in quel locale, pieno e vuoto
sembrano quasi la stessa cosa… Ma il direttore mi ha guardato, e mi ha detto
candidamente che Mister Chang adora, adora, l’ha sottolineato, il risotto alla
milanese e l’ossobuco, e il ristorante dove dobbiamo andare, dove si era deciso
già da tempo di andare, è uno dei migliori di Milano. Io ho sorriso, certo, ho
detto, mi sembra una buona idea.
Siamo
qui, a tavola. Siamo in sette. Due donne e cinque uomini. Mister Chang è
davanti a me. Ha un viso bonario, parla e ogni tanto fa una grande risata. E’
lievemente in sovrappeso. Dicono che sia una buona forchetta. Proprio lui,
davanti…
La
cosa migliore, se si mette male, è prendere un piatto piccolo, e poi lasciarne
una parte, dicendo che non è buonissimo… In fondo era così semplice, ci voleva
tanto? Due forchettate le riesco a mangiare, ci metto un po’, ma poi converso,
bevo l’acqua, resto con la forchetta in mano come se stessi mangiando… Ci sono comunque le pirofile, sui tavoli. Male
che vada. Avevo ragione.
“Quindi,
cosa prendiamo?” chiede il direttore, con il cameriere davanti.
Mister
Chang, a cui è stato già servito un aperitivo, prende la parola, in un italiano
stentato.
“Risotto
alla milanese… con ossobuco…”
Tutti
sembrano compiaciuti. Il direttore annuisce, ottima scelta gli dice.
“Sette
piatti… siamo sette!” dice Mister Chang al cameriere.
Sette
piatti, siamo sette. Non c’è la pirofila?
Non
c’è la pirofila, no, non c’è, un piatto a testa, risotto e ossobuco, gli altri
attorno a me hanno fame, parlano con Mister Chang e i suoi accompagnatori, sono
sciolti, sanno stare fra la gente, sanno come si tratta con un grosso cliente
come lui, il direttore poi gli parla di certe boutique di Milano per la sua
signora… e lui è interessato, molto interessato…
Quanto
ci mettono a fare il risotto con l’ossobuco? Venti minuti? Beh, sono venti
minuti in cui le labbra fanno come un esercizio ginnico di fronte a Mister
Chang, e al direttore che mi è accanto. Le labbra, perché avrei voglia di
andare da qualche altra parte, perché dovrei curarmi, ma non so come, perché
dovrei fare una psicoterapia come mi ha detto qualcuno, ma probabilmente non
servirebbe a niente, perché lo so più o meno da quando sto male, lo so, so
tutto, ma non ho fame, non ce la faccio, non sento i sapori, non ho desiderio
di cibo, ci vuole tanto a capirlo, e mia madre che continua a dire “Non mangi
mai le cose che cucino, non ti va mai bene niente” e io devo mentirle, devo
dire che ho già mangiato qualcosa fuori, che non ce la faccio a mangiare tanto,
che non voglio ingrassare, e lei la mette sul piano personale, “Anche tu come
tuo padre, non vi va mai bene niente”, tira fuori anche lui poi, anche lui, mio
padre, il mio grande papà che ci ha lasciato per andare in un’altra casa, e si
è rifatto un’altra vita e adesso ha una bambina, Beatrice, di quattro anni, e
si fa sentire poco, a Natale e per il compleanno, ha un’altra vita, cosa ci
possiamo fare, e mia madre insiste, insiste sempre a mettere in mezzo lui,
anch’io che sono come lui, anch’io che la critico, che non mangio il suo cibo,
e poi cambia, mia madre, cambia e diventa amorevole, si attacca a me, con chi
esci, quando torni, stai attenta a quel ragazzo, non è adatto a te, quel
ragazzo, accidenti, io e lei, io e lei, io e lei…
Non
ho toccato quasi nulla.
Mister
Chang mi guarda. I suoi occhi sono spilli. Anche il direttore mi osserva. Tace.
“Non
gradito risotto?” mi chiede Mister Chang.
“Non
hai toccato quasi niente” aggiunge il direttore.
Ha
un occhio critico. Forse pensa che si è sbagliato sul mio conto. Non sono
affidabile come collaboratrice, ho qualcosa che non va. Forse il mio viso
pallido anche se truccato, forse l’aspetto così filiforme non sono segno di una
buona linea, ma di qualcosa di peggio. Quel tipo di cose che non va bene alla ditta…
Ho
voglia di andare via. Quanto sono stata stupida. Mille idee su come superare
questo pranzo, e domani? Dopodomani? Ci saranno altri pranzi, altre cene, ci
saranno altri momenti in cui dovrò sedermi a tavola con qualcuno per lavoro e
cosa farò, cosa dirò quando il cameriere ritirerà il piatto ancora quasi pieno?
Il
locale ha la televisione accesa. C’è il telegiornale. “E’ una storia di emarginazione” dice la
conduttrice.
Capisco
solo queste parole, è una storia di emarginazione. Sono io, un’emarginata.
Queste persone attorno a me sono normali. Io no.
La
vita presenta i conti. A cosa serve fingere? Il giallo del risotto ricorda il
sole, un sole che non ho toccato, non mi ha riscaldato…
“Era
buono il risotto, Mister Chang… - dico con un filo di voce – per quel poco che
ho potuto mangiare…”
I
presenti alzano gli occhi verso di me. Proprio io dovevo essere al centro
dell’attenzione.
E’
finita. Lo so. Finita. Oggi, domani? O quando scade il contratto? Meglio altre
persone, anche formose, con meno problemi. Le anoressiche vanno in depressione?
E’ questo che si sta chiedendo il direttore?
“Vado
un attimo in bagno” dico.
Non
so quanto tempo ci resto. Sono io, davanti allo specchio, quel volto lì
scheletrito che camuffa la tristezza. Sono io quella. Affidabile e brava sul
lavoro, un disastro fuori.
Passano
i minuti. Devo pur uscire dal bagno…
C’è
lui che mi aspetta lì fuori. Il direttore. I nostri sguardi si incontrano, vorrebbe dire qualcosa , lo sento. Ma non
chiede, non dice nulla. Mi mette solo una mano sulla spalla.
“Vieni,
dai.”
Vieni,
dai, non te la prendere. Lo sai come è fatta tua madre. Lo sai che dei giorni è
così, di cattivo umore e poi le passa. Andiamo al cinema domenica? Ti ho
promesso che ti portavo, quante volte il
tuo papà non ha mantenuto una promessa? Ma adesso esci da questa camera, vieni
a mangiare, lavati la faccia, soffiati il naso. Dai, smettila di piangere.
Arriviamo
a tavola.
“Allora
lo prendiamo tutti il caffè?” chiede il direttore.
Sì,
lo prendo anch’io. Arriva poco dopo. Lo bevo, un sorso. Ne sento il sapore, è
buono questo caffè.
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