(Introduzione di Angelo Perrone)
(ap) I “racconti del sabato”. È un momento particolare, il sabato, come conclusione della settimana. Perché mai uniforme, uguale all’altro.
Qualche volta per esempio anche più gravoso. Infarcito di maggiori impegni, rimandati nei giorni precedenti e accavallatisi tutti insieme, da assolvere correndo prima di esserne sommersi, sfruttando le ore contate, insufficienti.
Nel migliore dei casi, è occasione per ritagliarsi un tempo per sé. Quanti modi ci sarebbero per qualcosa di piacevole, divertente. Un’attività che dia gioia, faccia stare meglio. Come guardare un film, uscire con gli amici, leggere un libro. Coltivare piccoli piaceri.
Oppure per non fare proprio nulla. Starsene da una parte e rimanere in compagnia dei propri pensieri. Tornare a quel momento, immaginare altro dal tempo che fugge, spingersi più avanti con un pizzico di coraggio.
Certo ci sono anche i fantasmi, certe volte. Pronti ad assalirci quando meno ce lo aspettiamo, sanno approfittare ogni distrazione. Dal pensiero libero alle ansie, il passo è breve. Dietro l’angolo, quelle preoccupazioni sono lì a tormentarci.
Lia – protagonista di questo racconto di Marina Zinzani - è una donna separata alle prese con una figlia adolescente e i problemi di quell’età. Grandi, piccoli, chissà? Ecco, c’è quella sensazione di trovarsi davanti una realtà incerta, imponderabile, che forse è poca cosa ma potrebbe ingigantirsi d’un tratto.
È difficile farsene una ragione precisa. Darsi le risposte giuste. Il sabato con la sua atmosfera inquietante è una sorta di incubatore di tutte le paure, reali od immaginarie, che la donna avverte. Cosa desidera allora? Capire finalmente cosa sta accadendo, trovare una soluzione, magari solo un po’ di consolazione. Anche lei ne avrebbe bisogno.
Gli altri racconti pubblicati: Eliana, Frida, Agata, Ettore, Celeste, Alda, Linda.
Erano giorni che Lia stava male. Erano giorni che un leggero mal di testa l’accompagnava al mattino, e non se ne andavano mai del tutto. Il mal di testa si abbinava poi a un senso di pesantezza, a un sottile malumore. Ma era poi sottile? Era un’implacabile sequenza di problemi a presentarsi, ogni giorno appariva il problema quotidiano da risolvere. La figlia che aveva preso un brutto voto, le ripetizioni, la frequentazione di compagnie poco raccomandabili. La figlia… ah, la figlia… la figlia era la trasformazione in persona.
Aveva cambiato scuola, per via di una serie di eventi. Ed era cambiata lei, la sua Camilla. Non più la ragazzina dolce, delicata, che amava la danza, che si confidava. Ora c’era un muro fra di loro. Ora c’erano dei nuovi amici, ragazzini che facevano tardissimo la notte, anche la mattina, e arrivavano a casa ubriachi, ubriachi, roba da non crederci… e i genitori nulla, silenzio, i loro genitori tacevano, non si poteva dire nulla, non fare nulla, una volta ci aveva provato con Camilla, “non ho piacere che esci con quei tuoi compagni, ho saputo che bevono.”
E lei, lei cosa aveva detto? Un’alzata di spalle, “bevono tutti, mamma, non sono come quelli dei tuoi tempi”. Bello, bello, magnifico. Un essere preistorico e virtuoso, io non ho mai bevuto, non mi sono ubriacata e non ho mai frequentato ai miei tempi amici che bevevano da perdere il controllo. Perché si erano sentite storie davvero poco edificanti, sulle compagnie di sua figlia. Bello, bello questo essere al passo con i tempi.
Era stanca Lia, di una stanchezza che non dava tregua, stanchezza nel dover parlare alla figlia, nel dover affrontare discussioni a non finire. Era stanca ed esausta, e sapeva benissimo che il mal di testa era un sintomo legato a questa tensione.
Che fare? Come risolvere? Invidiare i figli degli altri che non avevano questi problemi, che erano bravi ragazzi, studiavano, avevano già relazioni stabili, tutto a posto, senza grossi pensieri? Confidarsi con qualcuno? Domanda: come posso ritrovare una confidenza con mia figlia? Nessuno l’avrebbe aiutata, nessuno. Un filo di Arianna per ritrovare la via. Una parola buona di qualcuno che potesse comprenderla. Un evento, un po’ magico forse, che mettesse a posto le cose e placasse le ansie del suo cuore.
La vicina di casa? Perché non parlare con la vicina di casa? Anche lei aveva avuto problemi un tempo con la figlia, si erano trovate a parlare fra di loro qualche volta e Lia l’aveva trovata piena di umanità. Ecco, perché non provare ad abbattere le barriere invisibili che c’erano sui pianerottoli, perché non aprire le porte che erano così vicine ma sempre chiuse, con la sbarra dell’indifferenza, della discrezione?
Una torta. Doveva fare una torta e portargliene una fetta. Poteva iniziare così, l’approccio. O la ricerca di un conforto, o lo sfogarsi, o il semplice parlare fra donne. Fra madri. Sentirsi meno sola. Non era facile crescere un’adolescente, con un ex marito latitante. Affrontare le tempeste da sola, guardare la sveglia la notte e Camilla che non era ancora tornata. E non poter farci nulla, il sabato prossimo sarebbe stata la stessa cosa, e se provava a parlare erano musi lunghi, parole sgarbate che uscivano dalla bocca di Camilla.
La vicina si chiamava Elena. Erano una donna sui cinquant’anni, con una pelle ancora giovanile, rosea. Aveva dei chili in più, e degli occhi azzurri nascosti da lenti spesse. La sua cucina aveva profumi di sugo appena fatto, quei sapori della nonna che si erano perduti.
Elena l’aveva accolta con un sorriso, l’aveva ringraziata con calore per la torta. Era sola anche lei, un marito che era andato da qualche parte, non aveva spiegato dove. Un’altra storia di separazione, su cui Lia non aveva chiesto nulla, per discrezione, le poche volte che si erano parlate.
La cucina era luogo accogliente, e ben presto l’invito a mangiare con lei era arrivato. In fondo sua figlia Camilla non c’era. Era sabato e avrebbe mangiato da un’amica. E loro due erano sole, potevano farsi compagnia. Gli spaghetti che Elena le mise nel piatto erano “alla Norma”, ed erano un invito all’allegria. E al parlare, al lasciarsi andare.
Avevano la televisione accesa, guardarono il telegiornale. Commenti, discorsi. I tempi che sono pesanti, difficili. Anche con mia figlia, sono preoccupata. Ecco, finalmente l’aveva detto, ecco che provava a dire qualcosa… Elena la guardò dritta negli occhi. E si lasciò andare anche lei a ricordi di anni difficili con la figlia, quante preoccupazioni, quanta fatica. Altri mondi, i giovani di oggi.
Lia raccontò qualcosa, le disse che era preoccupata. I pericoli del mondo, le paure di una madre. Elena ascoltava, interveniva ogni tanto. Ma erano in fondo parole già sentite le sue, è un periodo, poi la ragazza trova uno, si fidanza, mette la testa a posto, non farà più tardi, dobbiamo sperare in questo. Cose già sentite, purtroppo.
Poteva essere gradevole passare il sabato con la vicina. Pranzare assieme, confidarsi. Vedersi anche altri giorni, farsi visita più spesso. Idee che vennero in mente a Lia mentre mangiavano.
Quando uscì dalla casa della vicina, appariva un po’ più sorridente, ma con un’ombra ancora, e quest’ombra si accompagnava al leggero mal di testa che neanche gli spaghetti di Elena avevano alleviato.
Sabato pomeriggio a casa da sola. Cercare aiuto negli altri. Il padre di Camilla che minimizzava. Forse era eccessiva la preoccupazione per quella figlia in fondo come tante altre. Il cercare aiuto e conforto e poi rimanere con quella sensazione di incompiutezza. Erano altrove le risposte.
Telefonò alla figlia. Le chiese se voleva fare un giro in centro, vedere assieme qualche negozio. Anche prendersi una pizza al taglio, dato che ce n’era una dove la facevano buona. Camilla, un po’ stupita, rispose di sì.
Si vestì in fretta, qualcosa di un po’ più giovanile del solito, e una bella passata di rossetto. Un arancio acceso. Un filo di mascara. Si infilò il soprabito, si mise davanti allo specchio cercando di sorridere. Poi scese in strada. Era una giornata di sole.
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