di
Marina Zinzani
Tratto
da I racconti dell’ombra
Parole
e sorridere. Tante parole, corrette, scandite bene, presentate con un sorriso,
un’inclinazione gentile, o seriosa, se occorreva. Modulare la voce in base alla
notizia, apparire un essere animato, con delle emozioni, ma anche tanta
professionalità. Perché quella serviva, prima di tutto: la professionalità in
quel lavoro che la portava ogni giorno a casa della gente, volto che si
incrociava mentre si preparava la cena, o si era già a tavola, e la famiglia si
raccoglieva.
Angela
era una giornalista del telegiornale: che cosa strana finire proprio lì,
davanti a tutti, al mondo si potrebbe dire, lei che di natura era timida e
riservata: ma ci era finita piano piano, come ci fosse stato un disegno del
destino. Era partita da una sostituzione, poi un periodo più lungo e poi un
altro ancora più lungo, e via via era arrivata a quella sua presenza fissa. Il
telegiornale, all’ora serale.
Non
c’era stato bisogno di fare emergere particolari doti, c’era già tutto in lei: un
volto rassicurante e gradevole, la voce pacata, un aspetto giovanile, dato che,
pur avendo quarant’anni, ne dimostrava dieci di meno.
Ecco,
doveva andare in onda. Doveva sorridere, parlare, annunciare i filmati, dare le solite notizie
purtroppo brutte o poco piacevoli. Le stesse cose di ogni giorno. Ma quella
sera c’era un servizio finale. Un filmato su Parigi. Lei lo annunciò con un
sorriso sulle labbra, era naturale fare un bel sorriso quando si parlava di
Parigi.
Pochi
minuti, un servizio sui Campi Elisi, sguardo sulla città dell’amore, secondo il
sentire comune. Quando uno era innamorato, proponeva all’amata di fare un
viaggio, anche breve, a Parigi. Capitava.
Anche
a lei era capitato. Parigi… La brezza di un mattino di inizio estate, quel
fresco che poi diventava caldo, cinque giorni da sogno in un hotel stupendo, la
migliore cucina francese, ristoranti raffinati, un abito corto colorato che
assomigliava a quel modo di vestire delle francesi, sobrio e civettuolo
insieme, molto femminile. Essere felici a Parigi non era difficile, se si aveva
accanto un uomo bello, con tutte quelle doti che piacciono alle donne, la
gentilezza dei modi, la forza per proteggerle, la tenerezza e il sapere
ascoltare. Tutte cose racchiuse in un uomo, quella cosa che si poteva definire
con quella parola così usata, anzi abusata, fontana benefica, scrigno delle
meraviglie, sensazione magica e misteriosa. Definirlo amore poteva sembrare
riduttivo.
Parigi
scorreva sotto i suoi occhi sul video, i Campi Elisi e Place Vendome, ed ora un
bistrot. Sembrava che lì ci fosse tutto il bene del mondo. La cioccolata calda,
un dolce assaggiato in due. Ridere, ridere, ridere alle sue battute, perché era
anche un uomo brillante, lui. Ridere e
sentire così vicina la loro vita insieme, in una casa, con un piccolo giardino
in cui tenere un cane, andare per negozi ed arredare insieme il loro nido,
pezzo dopo pezzo, come si costruisce un amore, una storia importante, un
mobile, poi un altro, poi un cane che diventa come un figlio, poi un figlio…
Parigi
era mistero, una dea che le faceva vedere l’amore, dopo tante delusioni. Non
era vero che le donne belle erano felici in amore, che trovavano uomini appena
si voltavano: non era stato facile per lei fino ad allora, poco le
interessavano i facili corteggiatori, e le storie che duravano era rare.
Parigi,
Parigi, Parigi, Parigi e la notte, la follia, un bacio sulla Senna, Parigi e
mille promesse, colori che riempivano i sogni, la vita che sarebbe stata lì a
divenire. Una vita felice, e lei… una donna innamorata.
Non
si può essere infelici a Parigi, se lo si è non si è proprio normali… L’aveva
sentita dire una volta, questa frase.
Le
immagini del filmato stavano finendo, c’era stata da sottofondo la voce di
Edith Piaf, la sua canzone “La vie en rose”. Donna sfortunata in amore, Edith
Piaf. Amore ricercato tutta la vita, quasi una maledizione il trovarlo e
perderlo, gli dei cattivi che danno alcune cose, fama, denaro, ma l’amore lo
fanno solo intravedere, e c’è qualcosa di beffardo e terribilmente crudele in
questo, nell’amore intravisto e poi portato via.
Edith
Piaf aveva fatto sognare il mondo intero, non solo i francesi, e la sua voce
vibrava ancora e commuoveva, musica di
sottofondo di tanti momenti. Era stata infelice, Edith Piaf…
La
felicità sgretolata, poco dopo il viaggio a Parigi. Un incontro, in treno. Un
incontro in treno che cambia la vita di lui, un’altra donna, con chissà quali
requisiti, che gli si era seduta accanto e che gli aveva fatto perdere la testa.
E a nulla erano valse quelle sue parole,
terribilmente di circostanza, “vedrai, troverai un altro uomo che ti amerà come
meriti, sei una persona speciale”, “sono cose che succedono, non l’avevo
previsto”.
Si
può portare dentro un lutto e dovere sorridere tutte le sere, davanti a milioni
di persone, celare quel lutto senza che nessuno si accorga di un’inclinazione
malinconica della voce, degli occhi che vorrebbero piangere, di lacrime rinchiuse in una stanza della mente,
da cui usciranno poco dopo, in auto, o a casa.
Vita
che passa, la felicità toccata e svanita, come Edith Piaf, usignolo,
scricciolo, così fragile e allo stesso tempo forte, da andare in scena anche
dopo la morte dell’amato.
Ecco,
era svanita la voce di Edith Piaf e lei doveva sorridere, dire le solite frasi
di circostanza, il telegiornale stava finendo, augurare a tutti buona serata,
fare credere che tutto andasse bene.
Ma
quanta tristezza in quegli occhi, quando si alzò dalla sedia… Nessuno, di
quelli che erano in studio, lo notò… Lei diede loro di spalle, amara
sensazione, peso rinchiuso dentro un’anima ferita. E quando si girò aveva il
solito, rassicurante, sorriso.
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