Amsterdam, di Frans Koppelaar |
“La caduta” di Albert Camus. La maschera virtuosa e la vita dissoluta: non basta l’abbandono delle apparenze
perché vi sia redenzione
di Mariagrazia
Passamano *
“Ah, caro mio, per chi è solo senza Dio né padrone, il
peso dei giorni è terribile. Perciò, visto che Dio non è più di moda, bisogna
scegliersi un padrone”. Cadere e restare a terra, sospesi, nell’attesa, e con
la consapevolezza nauseabonda che potrebbe non esservi alcuna risalita. Cadere,
ed essere tutti più vicini alla colpevolezza, alla pena, al peso della mortalità,
alla condanna.
Siamo “i chiodi della crocifissione”. Coloro che
ipocritamente si “arrampicano sulla croce solo per essere visti da lontano”
Nessuno escluso, nessuno immune, una condanna corale. La caduta è
l’esemplificazione della non redenzione. È la veglia funebre del nichilismo, è
corrosione di ogni menzognera certezza, il funerale ufficiale dell’ipocrisia,
il crollo della metafisica e preludio della rivolta.
“La Caduta” è un romanzo di Albert Camus scritto nel
1956. Il protagonista, Jean- Baptiste Clamence, è un avvocato parigino che
lascia la capitale francese e il suo lavoro e si trasferisce ad Amsterdam, e fa
del bar Mexico City il suo nuovo “studio”.
Un lungo monologo, la confessione di un “giudice
penitente”, di “un falso profeta”, di un segmento sbiadito, opaco, spento.
Il protagonista sembrerà porre fine alla menzogna
della sua vita, solo nel momento in cui “il demone” del sottosuolo arriverà a
perseguitarlo, assumendo le fattezze di una risata, che lo tormenterà anche tra
i canali di Amsterdam e che udrà a partire dall’istante in cui “qualcuno si
gettò in quelle acque gelide”.
Eppure Clamence non conosce redenzione, il liberarsi
dalla maschera non ha come conseguenza nessuna rinascita per lui. Così il suo
urlo appare parzialmente rivoluzionario; torna indietro, come un eco, incapace
di sfondare la parete della incomunicabilità, dell’indifferenza e della
solitudine.
È dunque il racconto di un uomo impenitente, esiliato
tra le mura della contraddizione tra il “diritto” alla vita – l’amore per essa
– e il suo “rovescio”. Annegato nel mare di un godimento che nel momento in cui
è smette di essere. La caduta è espressione di una vita
inautentica, ipocrita, falsata, annebbiata. Induce il lettore a trovare una sua
dimensione, oltre il dolore, oltre la noia, oltre l’agonia del puntare tutto
sulla vanità e la Mensonge. È estraneità, assurdo ma non ancora rivolta.
È critica, ma non unione, è espressione di quel Dio non rinvenibile “né più in
soffitta né più in cantina”, ma “installato su un tribunale nel fondo di coloro
che giudicano e picchiano, soprattutto in nome suo”.
Camus dissacra, disorienta, sconvolge. È pensatore
scomodo, costringe il lettore alla riflessione, al senso di vuoto, lo pone
dinanzi alla consapevolezza di un divorzio irrimediabile fra l’insopprimibile
appetito umano di senso e l’irragionevole silenzio del mondo.
In questo quadro narrato con assoluta verosimiglianza
Camus espone di nuovo il suo umanesimo pessimista, ma anche l’importanza degli
affetti e dell’agire individuale. In questo contesto, l’uomo risulta incapace
di portare avanti la sua battaglia sorda contro il mondo, e non vuole né la
libertà né le relative sentenze.
L’autore vorrebbe convincere l’individuo ad abitare la
propria libertà, a preservare l’essere nella sua permanenza e determinatezza e
lo fa scaraventandolo giù dal precipizio del nichilismo.
Non si può più tornare indietro ed indossare gli abiti
di ciò che eravamo, dopo la "caduta”, dopo essere stati schiaffeggiati dalle
parole di Camus, e dalle struggenti sensazioni di questa opera che come una
spina è in grado di conficcarsi nel cuore del lettore. Restituisce una nuova
consapevolezza, lascia tutti in sospeso, educando a quell’inciso, “Piuttosto
morire in piedi che vivere in ginocchio», che segnerà la rivolta.
* Scrive sul blog Invent(r)arsi:
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