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Fiumi di parole

La verbosità nei dibattiti nasconde il rifiuto di ascoltare le ragioni degli altri: non solo cattiva educazione, si tratta di accettare il confronto tra diversi

di Paolo Brondi

Chi può mettere in dubbio che alla società civile convenga  formare l’opinione pubblica con pensieri ben regolati al fine di produrre decisioni vincolanti, o esprimerli in contesti aperti per porgere, con misura ed educazione, pareri avveduti, o manifestare un vigile controllo sulle decisioni assunte?
L’esperienza quotidiana è costituita invece da comunicazioni del tipo di quelle che in passato fu debitamente stigmatizzato da  un monsignore e vescovo del Cinquecento, Giovanni Della Casa (1503-1556): “Sono ancora molti che non sanno restare di dire; e come nave spinta dalla prima fuga, per calar vela non s’arresta, così costoro trapportati da un certo impeto scorrono e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò; anzi o ridicono le cose già dette, o favellano a voto. Ed alcuni altri tanta  ingordigia hanno di favellare, che non lasciano dire altrui.” (Giovanni Della Casa, Galateo, p. 144-148 ed. Felice Le Monnier, 1949).
Fuggire o guardarsi dai troppo verbosi è scelta assai prudente e benefica, ma lascia disattesa la necessità di comprendere ove si annida la manipolazione delle menti e delle scelte per comunicazioni sistematicamente distorte.
Un chiarimento può essere offerto dalla valutazione che il tempo che esige la difesa di ristretti punti di vista non è un lineare e quieto scorrere in avanti, ma è tanto rapido che chi parla nemmeno permette a chi ascolta la reciprocità di tesi e antitesi. Di più, nei dibattiti, non importa se in  ambiente istituzionale, o presso i media, le parole fluiscono incessanti, ossessive, favellanti spesso “a voto”, come quelle di un Io che si fa mondo, un mondo unico e  indifferente alle valutazioni ed ai giudizi altrui.

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