lunedì 2 marzo 2020

La minaccia che sconvolge la vita

Il coronavirus ha provocato anche reazioni irrazionali. Psicosi? Le società moderne, così interconnesse, sono impreparate di fronte ad eventi insidiosi. L'insicurezza rispetto a ciò che è sconosciuto e incontrollabile

(ap *) Ci vuole tempo per rispondere a domande difficili. Quelle che affiorano con il passare dei giorni, appena riavuti dal primo spavento. Sulla normalità della vita, sullo stravolgimento del tran tran quotidiano, sul modo di lavorare, di divertirsi. Prima ancora sulla maniera di affrontare un problema collettivo, serio ed importante. E’ avvenuto in questi giorni. Sono i momenti, così attuali e drammatici, del virus che viene dalla Cina e ha un nome tanto strano, “corona”, che non sembrerebbe proprio quello di una malattia terribile.

Come era bello prima. Andavamo al supermercato a fare la spesa una volta a settimana, le cose necessarie, senza frenesie, qualcosa la dimenticavamo pure, ma non importava, sarà per la prossima volta. Prendevamo il bus o il treno per lavoro, tutti i giorni, insieme a tanta gente sconosciuta, sempre diversa. Quell’anziano, accanto a noi, tossiva di continuo, ma non ci impressionava, al più ci chiedevamo: perché non si prende una pasticca? Il fine settimana, qualche svago, ci piaceva stare in mezzo alla gente. Il teatro, il cinema, una cena con gli amici di sempre. Oppure all’aperto, il freddo non si sente quasi più, sembra persino arrivata la primavera. I milanesi: una passeggiata sui Navigli; i veronesi, un caffè a ridosso dell’Arena; i romani, due passi in piazza Campo de’ Fiori. Viaggiare. Qualcosa di straordinario, la Cina per esempio, di cui tutti parlano, chissà com’è? Oppure, una gita “fuori porta”: quella mostra a Torino, quell’altra ad Urbino, l’evento in un paesino della Liguria.
Le nostre abitudini a soqquadro. Si cambia tutto. La spesa al supermercato diventa una corsa all’accaparramento, che neanche se avessimo dichiarato guerra, contemporaneamente, agli Usa e alla Russia. Manca in giro persino l’acqua, oltre la pasta e il pomodoro, per noi beni di prima necessità. Ma dove li mettiamo tutti quei prodotti? E le cose fresche, come conservarle, senza che vadano a male in poco tempo? Per non parlare dei prodotti più specifici nella battaglia al virus, come l’amuchina, le mascherine. Non ce n’è più una in giro, di quelle diaboliche mascherine. E l’amuchina va sostituita con qualche detergente comune. Tutti chiusi i negozi, gli uffici, le scuole, specie nelle regioni contagiate, nel Nord d’Italia. A causa di quanto avvenuto nell’ospedale di Codogno, dove non si sono accorti subito di un infettato, e questi ha contagiato tanti altri pazienti, persone fragili, già malate. Ma perché non se ne sono accorti? E poi dicono che al Nord sono organizzati ed efficienti, mica vero, ecco gli italiani sempre approssimativi e faciloni. Perciò, servono massime misure drastiche. Se occorre anche l’esercito, oltre a polizia e carabinieri.

E poi, il fai da te. Inesauribile risorsa italica, che talvolta salva e talvolta danneggia. Ognuno in ordine sparso, con modi diversi, ma uniti dal fine, debellare il virus o almeno difendersi. Ciascuno a modo suo. Scuole chiuse, tribunali vuoti, non se ne parla di teatri, stadi, esercizi commerciali. Tutti a casa. Persino la messa celebrata al riparo delle infezioni, praticamente solo il prete e il pane da consacrare: tutta la comunità, si fa per dire, lontana, collegata via chat, assiste davanti allo schermo dello smartphone. Non dovevamo aprirci alle nuove tecnologie? E poi immancabili i lodevoli esempi personali: il governatore della Lombardia con la mascherina  h24, per mostrare alla gente (meglio, ai suoi elettori) cos’è la virtù. E poi tanto altro, il narcisismo degli esperti, le beghe tra i governanti di ogni livello.
Nel frattempo, in mezzo allo sconquasso, le domande inquietanti: qual è la reale gravità di questo corona virus? E’ stato fatto quanto doveroso per contrastarlo? Tra epidemia e pandemia, e altri paroloni, non ci siamo forse smarriti, perdendo il senno? Preferendo così chiuderci in casa, dopo una bella spesa al supermercato. Per stare al sicuro. Ognuno si è dato la sua personale risposta, che rileva ansie, paure, prima ancora che mancanza di informazioni scientifiche accurate. E si ritorna all’interrogativo iniziale sul nostro modo di affrontare questioni che percepiamo come devastanti per l’assetto della nostra vita quotidiana.

Non è mancato, a ben vedere, anche il buon senso. A leggere certi discorsi, sembra che solo l’Italia, a parte la Cina, sia infetta. All’estero, pontificano grandi testate e soprattutto cancellerie europee. Forse per tornaconto. Al massimo, ci possono addebitare troppi controlli, fatti anche quando non era strettamente necessario, perché riguardanti persone, come si dice, asintomatiche. Paradossalmente proprio i controlli così estesi hanno fatto scoprire tanto altro, oltre i casi gravi. E certo tutto questo ha amplificato il problema, destato altro allarme. Altrove, è brutale dirlo: meno allarme, ma anche meno controlli. È una colpa aver controllato tanto?
La svolta grave è avvenuta quando uno di questi casi è stato riscontrato in ospedale, come si chiama: Codogno?, luogo di incubazione ideale della malattia, perché ci sono persone spesso persone anziane e già malate di altro. Certo lì ci voleva più vigilanza, ma c’è stata anche una coincidenza singolare di fattori negativi: e gli effetti si sono moltiplicati. Le “quarantene”, poi, non impediscono di per sé la diffusione del virus, ma non sono inutili: la rallentano, la contrastano. E l’Italia non è, dopo la Cina, la zona più infetta e pericolosa del mondo. Fake news. È comodo dirlo, serve a tranquillizzare, a sentirsi immuni, perché la malattia è confinata altrove. Ma nulla garantisce che, con il tempo, non ci siano altri focolai di malattia altrove.

Sono state di buon senso le risposte della gente? Abbiamo letto e malamente digerito paginate di giornale sul tema. Dopo le paure, si riprende però la vita di tutti i giorni. Con calma, certo. Un passo alla volta. Ma riapriamo i negozi, torniamo a vederci in piazza e pazienza se qualcuno tossisce o è raffreddato, sono malanni di stagione. Non si può stare sempre in casa, nel timore di un nemico che non vediamo arrivare alla nostra porta. Anche il capitano Drogo, pur se Dino Buzzati non lo racconta, si sarà stancato di aspettare il nemico all’interno della fortezza Bastiani. Più che per un rigurgito di senno, è la stanchezza a prevalere. Non possiamo alterare più di tanto la nostra vita, il corso dei giorni. Riprendiamo a fare le cose di sempre e che ci davano qualche sollievo. Con cautela e lentezza, ci mancherebbe, perché il pericolo rimane, ma la strada è questa. Torniamo alle nostre abitudini. E’ l’invito da tante parti, anche autorevoli.
Non basta, a chiarire tutto, il lento ritorno alla normalità. L’esortazione a non farsi prendere dal panico. L’invito a guardare le cose nella loro concretezza. Possiamo farcela a contrastare il virus. In tutti i modi l’economia deve riprendere, dobbiamo riprendere i commerci con l’estero, a cominciare proprio dalla Cina, non possiamo farne a meno. E può darsi, come ha segnalato il sindaco di Milano Sala, che proprio la cultura ci faccia fare un passo in avanti per uscire dallo stallo. La cultura, nel senso di tornare a vedere mostre, ascoltare concerti, frequentare cinema. Motore della vita sociale. Ma anche nel senso più profondo di esortazione a comprendere meglio quello che ci è capitato.

Di fronte al virus, non abbiamo avuto semplicemente paura. Questa sensazione riguarda le cose conosciute, contro le quali possiamo costruire difese proprio perché sappiamo qual è il pericolo. È un fattore persino “costruttivo” dell’assetto sociale, la paura, utile all’azione. In questo caso, invece, ci siamo sentiti angosciati, senza forze, smarriti, incapaci di pensare razionalmente. Spinti a reazioni incontrollate e senza senso. Privi di certezze. Vedevamo la terra sgretolarsi sotto i piedi. La novità del pericolo spiega tanta parte dell’affanno con cui abbiamo reagito, e in parte giustifica qualche decisione eccessiva. Ma non è tutto qui.
Ha rotto tutti gli equilibri questo accidente, venutoci addosso tra capo e collo. E il fattore dirompente è stata la sua incontrollabilità. Tra noi si è intrufolato un nemico che non conoscevamo, e contro il quale non sapevamo come fare, perciò ha destato, oltre che sorpresa, sgomento. Ignoto alla scienza, mai isolato in laboratorio, e perciò mai contrastato prima. Noi a mani nude, senza un vaccino. A studiare cosa fosse questa malattia, come difenderci. Inoltre, ad aggravare la situazione, c’era la suggestione malefica della sua provenienza dal lontano Oriente. Il pregiudizio verso il totalmente diverso, appunto l’ ”asiatico”. Un aspetto emotivo, ma potente. Destava timore che il virus venisse dalla Cina: un paese grande e lontano, potente e misterioso, autoritario e minaccioso. Ancora, appariva come un elemento inafferrabile e insidioso. Aveva la capacità subdola di approfittare di vari canali di contagio, superare ogni confine fisico, diffondersi dappertutto. Infine era anche vigliacco. Perché colpiva anziani e malati, approfittando di loro.

Si è fatta esperienza dell’effetto, sulla nostra vita regolata da consolidate abitudini, di un accidente totalmente sconosciuto e incontrollabile. All’improvviso abbiamo scoperto di essere degli sprovveduti, di non aver gli strumenti per reagire a dovere. Non era solo una questione di competenze, di informazioni, di studi scientifici. Anche di questo certamente, perché disporre già di vaccini avrebbe fatto comodo, avremmo saputo cosa fare. Ma non è solo questo, c’è una ragione più profonda nell’inquietudine di questi giorni.
L’ansia è stata così forte da spingerci a reazioni irrazionali e prive di senso, come quella di fare scorte alimentari non necessarie o di rinchiuderci in noi stessi, quasi per non vedere quello che ci capitava, paralizzati nel fare qualsiasi cosa, per il timore di rimanerne danneggiati. Il coronavirus alla fine ci ha messo davanti l’eterna verità dell’incertezza della vita, e della nostra irriducibile insicurezza. Ad essere incontrollabile non è solo l’accidente che un giorno attraversa la nostra strada, ma l’esistenza stessa. E anche per questo avvertiamo un senso di fragilità ed insicurezza. Che ci sgomenta, facendoci reagire in modo irrazionale.

* Leggi La Voce di New York:

Italiani basta col terrore coronavirus, tornate a vivere come avete sempre saputo fare

Riprendiamo a fare le cose di sempre e che ci davano sollievo. Con cautela, ci mancherebbe, perché il pericolo rimane, ma torniamo alle nostre abitudini


* Leggi La cura di sé:
Ci sono state reazioni irrazionali. La difficoltà di affrontare eventi imprevedibili e sconosciuti

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