Dalla Fortezza di Belvoir, Israele (foto ap) |
Emily Dickinson, donna
introversa e timida, dedita totalmente alla poesia: la capacità di immaginare una vita più vera e concreta di quella reale
di Laura Maria Di Forti
“Perché
nasca un prato, bastano un trifoglio, un’ape e un sogno. E se non ci sono le
api e il trifoglio, può bastare anche il sogno.” È una frase di Emily
Dickinson, poetessa americana nata nel 1830 in una famiglia borghese e
puritana. Era un periodo in cui alle donne si regalavano libri pregandole però
di non leggerli per evitare di rimanere impressionate, nella credenza che i
libri fossero troppo colti o troppo sentimentali per la fragilità della psiche
femminile, Emily si dedicò alla poesia, alla scrittura di frasi e biglietti di
accompagnamento a regali e alle lettere che inviava alle poche persone con le
quali intratteneva rapporti di amicizia.
Fu infatti una donna timida, introversa, tutta dedita alla sua poesia.
Innamorata del reverendo Charles Wadsworth, sposato e con figli, si rifiutò al
mondo rinchiudendosi nella propria camera e vivendo immersa nella propria
fantasia. E così, grazie alla fervida immaginazione in cui si era totalmente
immersa, le veniva facile vedere il prato laddove c’è solo il ronzio di un’ape,
una pianta di trifoglio e il desiderio. Le bastava tanto poco, addirittura si
accontentava dell’illusione, il miraggio, il pensiero del prato. Le era
sufficiente credere di vederlo, ingannando tutti i sensi e perfino il cuore.
Ma cosa le importava, in fondo, se dentro provava quella sensazione così
piacevole e appagante che solo le anime sensibili riescono a scorgere anche
nelle piccole cose? Non si curava di nulla, se non di sognare, perché la sua
anima riusciva a cantare nella solitudine dei propri pensieri. Emily Dickinson
aveva una grande anima, delicata e sfaccettata, talmente fervida da creare
immagini, sensazioni, da credere nell’amore e appagare la fame della sua mente
e del suo cuore.
Sapeva magistralmente parlare per immagini, spesso tristi, amare talvolta,
nella consapevolezza, forse, di quell’angoscia di fondo che impregnava la sua
esistenza persa nella solitudine della sua stanza.
Noi che abbiamo l’anima, moriamo più
spesso. Un’altra sua frase, forte, profonda. Chi ha l’anima, chi ha una
sensibilità fuori del comune, forse eccessiva, sì, muore più spesso perché
anche la più piccola sensazione diventa esagerata, cresce in maniera
esponenziale nell’intimità con se stessi. Diversamente da coloro i quali
riescono a superare tutto con la spavalderia dettata dal proprio ego, dalla
sicurezza delle loro emozioni, dalla sapienza nell’eliminare dal proprio
percorso ogni emozione negativa, chi ha un’anima viene ingabbiato dalla propria
sensibilità, da quell’apertura del cuore che li rende teneri, gentili, delicati,
ma anche ricettivi, troppo.
Eppure, se non esistessero persone così, il mondo sarebbe chiuso
ermeticamente alle emozioni, sarebbe freddo e distaccato, sarebbe indifferente
e duro. Per divenire migliore, il mondo ha bisogno dei sognatori, dei cantori di
favole, ideatori di miti, ha bisogno di chi si commuove ascoltando una melodia,
canta mentre lavora, legge con la leggerezza dei bambini, confeziona storie con
la bacchetta magica della loro mente.
Se tutti immaginassero di vivere in un mondo dove un’ape è sufficiente
a definire un prato, se si riuscisse anche solo a sognare il prato per dire di
averlo visto, allora, forse, saremmo più felici. I bambini, in effetti, lo
sono, molto più degli adulti, concreti, realistici ma anche scontenti e
sconfortati.
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