I paesi europei e l’America, in forte ritardo rispetto all’Italia. Una diversa gestione della sanità. Nel
nostro paese, prevale l’impostazione “comunitaria”, incentrata sul principio
costituzionale per cui la salute non è solo diritto del cittadino ma interesse
di tutta la collettività.
(ap*) Uno sguardo veloce
oltre confine. Cosa
stanno facendo gli altri paesi, contro il coronavirus? Uniti contro il
nemico comune, oppure ognuno per sé e Dio per
tutti? L’impressione è che ci sia una sostanziale sottovalutazione del
problema. Nei modi e nei tempi di reazione. E una diversa filosofia dei
rapporti tra Stato e cittadino, dinanzi ad una questione fondamentale come la
salute.
Certo altrove i numeri sono
inferiori a quelli italiani, o cinesi. E la stessa evoluzione dell’epidemia è
(per ora) diversa. Tuttavia le cose peggiorano a vista d’occhio pressoché
ovunque, c’è un crescendo dalla Cina verso ogni parte del mondo. Nessuno è
immune, casi di contagio si verificano in ogni paese e colpiscono chiunque. L’epidemia
non conosce confini, non si ferma davanti ad alcun muro. Cerca solo corpi da
aggredire, e sono dappertutto i deboli, anziani e malati. La fragilità non ha
passaporto. Il virus è un fenomeno cosmopolita e assolutamente democratico, non
guarda in faccia a nessuno, poveri e ricchi, gente comune e personaggi famosi.
Nonostante la diffusione a
macchia d’olio, si avverte un ritardo nei governi nazionali a intervenire,
prendendo decisioni drastiche. Gli europei e l’America di Trump hanno perso
tempo, e solo ora prendono posizione, ma si muovono in ordine sparso e con estremo
colpevole ritardo rispetto al sorgere dell’epidemia.
Non c’erano alibi. Se le
misure cinesi sono giunte inaspettate, il caso Italia non lasciava alcun
dubbio: il virus era destinato a non arrestarsi in Cina. Oggi, le misure degli altri
governi europei, Francia, Spagna, Germania sono timide, troppo parziali. Marcon
fa annunci in tv, mette in guardia, gli interventi non sono severi. Senza
tradire emozione, la Merkel
annuncia che il virus potrebbe colpire il 70% della popolazione. La Spagna
solo ora comincia a limitare la circolazione della gente, un passo minimo,
meglio non andare veloci. Non sono messi meglio i paesi anglosassoni, anzi. Inghilterra
e America hanno posizioni confuse e maldestre, al limite dell’ignavia, del
pressapochismo, dell’avventurismo.
Così l’ineffabile Boris
Johnson pronuncia una frase choc “Molte famiglie perderanno i loro cari”, ma
si rifiuta di prendere provvedimenti restrittivi nonostante la paura della
gente e le notizie internazionali. Avanti come se niente fosse. Bastano acqua e
sapone, al massimo qualche giorno a casa. Invoca l’ipotesi, in questo caso
infondata e pericolosa, della cosiddetta “immunità di gregge”. Se il contagio
fosse a tappeto, la popolazione svilupperebbe un’immunità di gruppo. Non
importa quanti sarebbero i morti.
E, dall’altra parte
dell’oceano, il presidente Trump
si trastulla con le accuse contro la Cina, colpevole di aver nascosto l’insorgenza
dell’epidemia, e demonizza il virus perché cinese (e non perché mortale). Siamo
agli esorcismi, all’esoterismo politico. Nel frattempo lì c’è la corsa della
gente. Non all’acquisto di mascherine e guanti mono uso, o di tamponi per i
test. In fila davanti alle armerie. Come non bastassero tutte le armi in
circolazione. Il nemico è il delinquente che potrebbe entrare in casa durante
l’epidemia.
Il “modello
Italia” nella gestione del virus, con tutti i difetti ma anche i pregi
dell’impegno corale in atto, non sembra proprio far proseliti. Perché?
Sarà materia di riflessione
per altri, storici e sociologi, capire se le nazioni, in questa circostanza,
abbiamo scelto strategie diverse perché più valide od efficaci. O se le
differenze dipendano da altre variabili. Avverrà a tempo debito, anche se già qualcuno
ha provato a farlo. Roberto
Buffagni, osservatore della contemporaneità, ha distinto due stili strategici:
chi si propone solo di contrastare la malattia (gli altri), non il contagio e
chi (come noi, ma anche la Cina, la Corea) pensa a contrastare il contagio
oltre che a curare. Due impostazioni diverse di natura etica, o politica. Che
presuppongono calcoli costi/benefici, stima delle capacità decisionali. Difficile
concludere se le cose stiano proprio così, o viceversa se le divergenze abbiano
altre origini: motivi solo contingenti, o al contrario retaggi culturali
profondi.
E’ evidente che, nella
mancata adozione di misure, pesa il ritardo con cui la comunità scientifica si
è resa conto del problema. Non è disponibile un vaccino, è vero. E la Cina ha
tenuto nascosta l’epidemia finché ha potuto. Ma il carattere devastante del
virus non è stato subito stigmatizzato. L’allarme andava dato prima. C’erano
tutte le condizioni. L’infezione, per sua natura, aveva alte capacità di
diffondersi. Ecco, il tempo è la risorsa più preziosa che i tecnici e i
politici hanno sprecato.
Soprattutto, l’approccio al
problema ha dovuto fare i conti con le beghe interne di ciascun paese. Trump si
gioca il secondo mandato a novembre prossimo e (ora che l’economia va bene) teme
provvedimenti impopolari e antieconomici. La stessa logica di interesse vale
per i democratici. Joe Biden si è spinto a parlare del “fallimento Italia”,
criticando la sanità per tutti (come se il suo mentore Obama non avesse fatto
una riforma in tal senso), per non offrire polveri alle doppiette di Barnie
Sanders e dei suoi supporters.
Da questa parte, Johnson è
sempre impegnato nella propaganda antieuropea, deve smarcarsi dalle politiche
del continente, in nome dei fasti di quello che fu l’impero britannico. A tutti
i costi. Perciò può anche sostenere la tesi del “contagio utile”. Macron è
indebolito dalla rivolta dei “gillet gialli” contro la sua politica, ma
soprattutto deve fronteggiare l’indole ribelle dei francesi. Non ha avuto il
coraggio di rinviare le elezioni amministrative in programma. La Merkel, nella
fase discendente della sua parabola, è in difficoltà ad adottare misure di
forte ricaduta su un’economia in buona salute.
Tante dunque le situazioni, in
Europa e in America, che hanno influito sulla capacità di agire in fretta. Tra
queste però non c’è alcuna perplessità di tipo scientifico. La scienza è
unanime nel ritenere che nella situazione odierna la misura più efficace contro
il virus sia il contenimento, cioè la prevenzione, la limitazione dei contatti.
Prevenire per circoscrivere la malattia e limitare i casi di curare, aumentando
le aspettative di vita.
Piuttosto sono state
decisive considerazioni economiche: le restrizioni avrebbero avuto, come
dimostra il caso Italia, un impatto economico molto forte, difficile da
sostenere. Non solo, ma avrebbero trasformato le abitudini sociali con ripercussioni
imprevedibili. Difficili da adottare anche da parte di economie efficienti con establishment solidi.
Ma, sul tavolo verde delle
vicende politiche, la carta giocata a lungo, illudendosi che fosse vincente, è
stata la presunzione che il virus non riguardasse tutti. L’arroganza di poter
fare da soli, di non essere come gli altri, di trovarsi in una condizione
diversa e più favorevole. Nel “sovranismo” che ha investito il mondo c’è un’accezione
psicologica profonda: il pensiero di non aver un destino comune agli altri, di
poter vivere sicuri nel proprio giardino. L’idea di poter prescindere dal resto
del mondo, elevando all’occorrenza muri reali o etici, si estende dal campo
economico a quello sociale, e influenza le relazioni tra paesi in tutti i
campi. È persino comprensibile e umano questo convincimento, se noi stessi per
un attimo abbiamo avuto la sensazione che l’epidemia colpisse solo il nord del
paese.
A questo punto può apparire sorprendente,
e forse lo è, che sia stata proprio l’Italia ad assumere la posizione più
decisa e penalizzante contro il coronavirus, chiudendo praticamente tutte le
attività. Un paese con un sistema politico instabile per il sistema elettorale
inadeguato a garantire maggioranze sicure di governo, con una classe dirigente poco
qualificata, senza una leadership efficace e/o carismatica. Un mondo in crisi,
logorato dall’avanzata dei populismi, e attraversato dalla propaganda maligna
contro la competenza, la professionalità, il lavoro qualificato.
Certo l’emergenza, con la
moltiplicazione dei contagi e dei decessi, e la crisi del cuore produttivo del
paese sono stati molto più di un campanello di allarme. Un colpo alla stomaco. Che
ha determinato una sollevazione. Persino una chiamata alle armi per una guerra
non dichiarata ma altrettanto feroce, più insidiosa perché destinata a
fronteggiare un nemico indeterminato e non visibile dall’altra parte del
fronte: è qui, si infiltra tra noi, nelle famiglie, negli stessi ospedali,
nelle palestre, nelle chiese, nei luoghi di lavoro. Ma, oltre all’impellenza
del momento, forse è stato importante anche altro nel modulare il tipo di
risposta.
Il virus colpisce paesi che
hanno certamente stili differenti nella gestione della sanità e in generale delle
questioni sociali. Adottano orientamenti talora più “individualistici” (in
specie nei paesi anglosassoni) e tal’altra più “comunitari” (come per l’appunto
in Italia, e anche – per motivi diversi, dovuti al confucianesimo e alla
tradizione popolare comunista - in Cina).
Nei primi, la salute è
principalmente affare dei singoli non dello Stato, che si limita all’urgenza e
al necessario, senza farsi carico dell’intera cura del malato: in America, se
sei coinvolto in una sparatoria e un colpo ti raggiunge alla pancia, il pronto
soccorso ti toglie il proiettile e ti cuce, ma il resto è a tuo carico. Deve
pensarci, se ce l’hai, l’assicurazione. In Inghilterra, sono noti i casi di bambini
malati gravemente, come Charlie
Gard, Alfie
Evans e Tafida
Rakeep: i medici volevano sospendere le cure, troppo costose e dall’esito
incerto o nullo, invece gli ospedali italiani si sono offerti di prestare
ulteriori terapie. I primi sono morti in Inghilterra, la terza, che è potuta
venire da noi, sta migliorando nell’ospedale pediatrico di Genova.
In paesi come l’Italia,
prevale un’impostazione etica e sociale di segno più comunitario che ha origini
antiche: la cultura contadina premoderna della famiglia e della natalità, alimentata
e modernizzata dal cattolicesimo; la tradizione liberale di tutela
dell’individuo; quella socialista della salvaguardia dei deboli. Radici lontane
rimaste vitali, che nel Novecento hanno portato a concepire la
salute non solo come diritto dell’individuo ma come interesse della collettività
(art. 32 Costituzione).
Sono i principi alla base del
servizio sanitario nazionale, gratuito per tutti, presidio tanto della cura
quanto della prevenzione, proprio perché entrambe rientrano nella
responsabilità propria dello Stato come espressione della comunità. Se dunque,
in questo caso, persino un sistema politicamente debole e instabile ha potuto
assumere decisioni forti e dalle conseguenze economiche imponenti, la
spiegazione probabilmente va ricercata in un retroterra culturale profondo.
E’ proprio questo il sentimento
diffuso degli italiani, consapevoli (pur al netto di tante trasgressioni
sconsiderate) della necessità di fare questo sforzo, di prevenire il contagio. Sentendosi
parte di una collettività, solidali con i malati e con chi è in prima linea
negli ospedali. Pur in un clima d’incertezza e di precarietà, di cui dobbiamo
continuare a preoccuparci, il vivere insieme ha radici profonde. E’ un buon
auspicio, ora che attraversiamo una prova così dura.
* Leggi La Voce di New York
Coronavirus: alle radici delle diverse strategie nel mondo e le virtù dell’Italia
Se un sistema politicamente debole e instabile come è in Italia ha potuto assumere decisioni imponenti, la spiegazione è nel retroterra culturale profondo
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Se un sistema politicamente debole e instabile come è in Italia ha potuto assumere decisioni imponenti, la spiegazione è nel retroterra culturale profondo
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