Guerra
è la parola che ripetiamo a proposito del coronavirus: evoca l’annuncio tragico del
1940 a piazza Venezia. Oggi, un’altra guerra non voluta da nessuno: tutti in trincea. Forse da
soli e senza alleati
di Laura Maria Di Forti
Avevo sentito la notizia alla radio. Era nell’aria da tempo, questo è
certo, ma ascoltare quella parola, ecco, fu per me raggelante. Sentii un
brivido corrermi dappertutto, percepii chiaramente il mio cuore battere forte
per la paura.
Eppure, un’ondata di applausi e di urla si era alzata a quella dichiarazione, anzi quasi ad ogni singola parola pronunciata con quella voce stentorea, abile nel modulare alti e bassi, e con intermezzo di pause sapienti.
Eppure, un’ondata di applausi e di urla si era alzata a quella dichiarazione, anzi quasi ad ogni singola parola pronunciata con quella voce stentorea, abile nel modulare alti e bassi, e con intermezzo di pause sapienti.
Mio cugino Paolo si era trovato quasi per caso a Piazza Venezia, e
dico quasi perché in realtà era stato un amico a portarlo fin sotto il
balcone. Qualche giorno dopo mi disse di essersi sentito male nel vedere la calca
festante di fronte a quella che era, purtroppo, una tragedia annunciata. Anche
se avessimo vinto, anche se la guerra fosse durata poco, molte famiglie
avrebbero pianto i loro figli, i loro padri, fratelli, amici.
Quella sera stessa, comunque, qualche ora dopo l’annuncio e mentre mi
accingevo ad andare a letto, mi meravigliai di quel silenzio tombale. Pensai
che la gente, ormai ritirata a casa per cenare e riposare, avesse abbandonato
le strade dove fino a poco tempo prima si era riversata per festeggiare
l’entrata in guerra, come se una cosa del genere abbisognasse veramente di
essere festeggiata quale momento saliente e fortunato della propria vita. Mi
chiesi, mentre cercavo inutilmente di prendere sonno, quando tutto sarebbe
finito.
Non sentivo rumori, non sentivo voci, sicuramente per l’ora tarda ma
forse anche perché ognuno, nella quiete della propria casa, aveva cominciato a
riflettere, probabilmente con il risultato di ridimensionare l’euforia provata
nel pomeriggio di quel giorno di inizio giugno.
La dichiarazione era stata già consegnata alle nazioni considerate
ora, a diritto, nemiche. Non rimaneva altro che accettare l’evidente crudeltà
del momento: si era in guerra, niente più avrebbe avuto lo stesso valore di
prima, niente sarebbe risultato uguale. La guerra era di fatto cominciata e la
vita di tutti, per chissà quanto tempo, sarebbe cambiata, avrebbe preso altre
strade, altre vie, altri modi.
Pensieri che qualcuno, quel lontano 10 giugno 1940, potrebbe avere
fatto.
Oggi, dopo ottanta anni, un altro dramma si sta compiendo. Questa
volta il nemico è invisibile, semina morti, costringe tutti a combattere una
guerra anomala, atipica, ma ugualmente drammatica. Una guerra che, stavolta,
nessuno ha voluto.
Siamo tutti in trincea, siamo tutti chiamati, uomini e donne, adulti,
anziani e bambini, a combattere. E come in tutte le guerre, l’importante è
l’ubbidienza, cieca e assoluta. Dobbiamo seguire le regole, i decreti sempre
più restrittivi delle nostre libertà, vero, ma il nostro compito ora è creare
il vuoto attorno al virus, unico modo per stroncarlo.
Quando finirà questa guerra? Speriamo presto. E quando potremo
nuovamente uscire, tornare al lavoro e a scuola, quando questa pagina triste
sarà finalmente un ricordo, allora speriamo di essere cambiati, in meglio,
naturalmente. Di sentirci più uniti, nonostante i leader politici di questo
nostro piccolo mondo facciano a gara non per aiutare, ma per arroccarsi dietro
le loro mura, più altezzose che alte, costruite sulla loro superiorità
monetaria. Non hanno ancora capito che questo virus sta nuocendo a tutta
l’umanità che può salvarsi solo restando unita.
Gli aiuti sono arrivati, certo, ma non dall’Europa. Amara
considerazione che ci porta a pensare che facciamo parte di una comunità poco
incline a tendere la mano, sebbene noi italiani siamo tra i padri fondatori di
quella che potrebbe essere, ma ancora non lo è, una magnifica opportunità di
crescere insieme.
Finirà, certo. Allora ricominceremo daccapo tutto quanto. Facciamolo
per bene stavolta, impegniamoci a lasciare da parte i traffici meschini, le vie
traverse e le scorciatoie che meritano solo di essere denunciate.
Finirà, sì. Ritorneremo a sentirci padroni delle piazze, a darci la
mano quando incontreremo qualcuno, ad abbracciare chi ha bisogno di un
conforto. Non dimentichiamo mai, però, che in questo periodo di tragedia tanti
si sono adoperati fino allo stremo: gli operatori sanitari, medici, infermieri,
ricercatori, farmacisti. Loro sono i nostri eroi, sempre in prima linea contro
il “male”. Non l’hanno fatto con una divisa, ma con un camice, senza elmetto,
ma con la mascherina, senza armi, ma con i respiratori, le medicine, la
pazienza, la dedizione. E con quella umanità senza la quale il mondo intero non
può salvarsi.
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