di Alì Abdelmohsen
Lo spettacolo “Favole da incubo”, tenutosi il 9 luglio a Verona, presso il Teatro romano, è ispirato all’omonimo testo (2020) di Roberta Bruzzone.
La studiosa racconta dieci casi di femminicidi, esponendo i profili psicologici dei responsabili e descrivendo il quadro economico-culturale in cui ebbero luogo le vicende. La tesi di fondo: non c’è una condizione sociale specifica dell’individuo a scatenare il gesto, nessun ceto è esente dal rischio.
La violenza di genere è un fenomeno che alligna nelle società già dall’antichità. E se si considera la differenza che storicamente veniva posta tra uomo e donna, è plausibile considerare Aristotele, in particolare, come colui che ha fornito alla cultura europea le più radicate argomentazioni dell’inferiorità femminile. Per non parlare dell’importanza ricoperta dalla discendenza maschile nel mondo romano.
Negli anni si è fatto molto, sia con leggi ad hoc sia con la sensibilizzazione dell’opinione pubblica tramite libri e altri mezzi di comunicazione, ed è doveroso che se ne continui a parlare. L’Istat riporta una flessione dei numeri di violenze nell’ultimo quinquennio, ma siamo lontani dal dire che il fenomeno è stato sconfitto.
Serve una strategia di lungo periodo per cambiare la società, a partire da interventi educativi e formativi, dentro e fuori scuola. La violenza di genere si può contrastare solo cambiando il paradigma sociale e culturale in cui è radicata. Ovvero imparando fin da piccoli il rispetto verso il prossimo perché non ci sono distinzioni di genere: siamo sì diversi, ma con gli stessi diritti e con lo stesso dovere di rispettarci.
La coppia è solida solo se ci si vuole bene e si coopera, rifiutando lo schema padrone-schiava. Ma soprattutto, come cita la canzone (Vietato morire di Ermal Meta), “l’amore non colpisce in faccia mai”, ossia la violenza non è amore.
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