Sono interpretate per anni dagli stessi attori,
le fiction come Il commissario
Montalbano, Un posto al sole o Beautiful: una performance collettiva permanente in cui la realtà si confonde con la finzione che va in scena ogni volta
(ap*) Quella del commissario
Montalbano di Andrea Camilleri è stata una serie televisiva molto seguita
dal pubblico italiano, e lo è tuttora, come è dimostrato dal successo che
accompagna, in queste settimane, anche la riproposizione delle puntate meno
recenti di questa fortunata opera, prodotta dal 1999, e poi articolatasi in
tante stagioni con decine di episodi. Venti anni di storie e di
rappresentazioni pressoché continue. Con un pubblico fedelissimo che ha seguito
le vicende del commissario più famoso non solo in Italia ma in più di venti
paesi al mondo.
La critica ha costantemente elogiato
il suo autore e sceneggiatore, indicato tra i più grandi scrittori del secolo
scorso. Per il carattere dei personaggi, le ambientazioni, il linguaggio, la
qualità delle storie, infine quel carattere senza tempo e senza confini delle
vicende umane che accadono nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata,
assunta a microcosmo esemplare della vita stessa e delle sue avventure. Alla
maniera del piccolo paese di Macondo, inventato da Gabriel Garcia Marquez.
La serie del commissario Montalbano
ha avuto la caratteristica di essere essa stessa in qualche modo “senza tempo” (almeno
sino alla scomparsa di Camilleri, ora pare che l’autore abbia scritto un
episodio “conclusivo” ancora in attesa di pubblicazione) perché articolata in
numerose puntate che hanno il pregio di concludersi ogni volta in sé stesse, come
fossero vicende autonome, ma di essere nello stesso tempo sequenze di una
storia più ampia e sottile, una trama dal filo esile eppure visibile, che è
appunto la storia di Vigata e dei personaggi tutti di quell’immaginario
commissariato: malaffare e affetti, caratteri e inclinazioni, piccole e grandi
avventure.
Un’umanità che nel suo piccolo vive
mille peripezie, in cui tutti possiamo forse ritrovarci. Al punto che, senza
alcuna stranezza, anzi del tutto logicamente, quelle storie, con i medesimi
personaggi base, sono interpretate fin dall’inizio dagli stessi attori a
cominciare dal protagonista Luca Zingaretti, per continuare con Fazio e
Augello, e l’insostituibile Catarella. Certo, come vediamo in questi giorni,
con alcuni anni di meno, e ci sorprende constatare come fossero più giovani
rispetto ad oggi, segno del tanto tempo trascorso per loro, certo, ma anche per
ciascuno di noi.
Quella del commissario Montalbano
non è un caso insolito di “serie cinematografica” strutturata come insieme di
episodi con gli stessi soggetti interpretati dalle medesime persone. Che magari
nel frattempo erano bambini e sono diventati adolescenti, che un tempo erano
adulti e sono invecchiati con i loro stessi personaggi. L’idea della
performance collettiva “permanente“ anima un po’ tutte le “serie” televisive e
cinematografiche. A prescindere ora dalla qualità dei testi, e dalla bravura
degli attori.
In Italia, Un posto al sole,
la serie ambientata a Napoli, partita dal 1996, e in onda quasi ogni giorno,
seguitissima da un pubblico abbastanza eterogeneo, ha superato ampiamente le
5000 puntate, sempre con lo stesso gruppo di attori: una trama infinita di
eventi, e di sviluppi, impossibile da riassumere, destinati a non concludersi
mai, e perciò rivestiti di un alone di favola.
La soap opera americana Beautiful
è in onda ininterrottamente addirittura da prima, dal 1987, trasmessa in cento
paesi, finora 8000 puntate, e la più seguita al mondo: gli attori del nucleo
storico hanno indossato i panni dei loro personaggi, da Ridge a Brooke, da Eric
a Stephanie, per decine di anni, magari doppiati in Italia sempre dagli stessi,
in una immedesimazione totale tra ruoli e voce, e tempi della narrazione.
Gli attori, nelle serie tv o
cinematografiche, crescono e maturano con i loro personaggi, cambiano e si
evolvono portando con loro i mutamenti; affrontano le avventure disegnate dal
copione, ma spesso lo condizionano con i fatti della loro vita personale:
escono e rientrano in scena a seconda di quanto accada loro nella vita privata,
come gravidanze, divorzi, malattie, e nel frattempo la storia va comunque
avanti senza ricadute. Il tempo del racconto spesso coincide con quello reale,
sicché se si avvicina per lo spettatore il Natale, anche nella serie il momento
è quello e le case del set sono addobbate a festa e si festeggia la ricorrenza.
Echi per nulla lontani della vita di
tutti i giorni. Anzi tracce precise. Lo stesso linguaggio, senza concessioni al
provincialismo, o al dialetto, si adegua alle evoluzioni sociali, alle mode del
momento, assimila detti o fa proprie tematiche che sono quelle del presente. Non
è spregiativo dirlo: c’è un aspetto per certi versi “impiegatizio” in questa
pratica che nulla toglie alla qualità della interpretazione ma anzi la caratterizza.
Ti prepari ogni giorno oppure ogni stagione,
non importa il tipo di continuità, per recitare quel ruolo: vivi per molto
tempo o spesso nello stesso luogo dove si svolgono i fatti, la tua vita di ogni
giorno è preparazione del ruolo o delle scene del giorno seguente, o della
stagione successiva, magari frequenti nel privato la stessa trattoria dove
reciti, o ti fai il bagno in quel mare di Vigata. Vivi come il tuo personaggio
prima di rappresentarlo.
La “rappresentazione” assume
caratteri più pregnanti, lo spettacolo è la vita stessa degli attori, la
finzione finisce per coincidere con la realtà e questa dà forma alla stessa
recitazione, la rende se possibile più autentica. Sembra a volte persino di
vedere nella recitazione delle sfumature che rimandano alle vicende degli
attori: dolori, gioie, eventi importanti. Come distinguere i due piani, quello
del privato e del pubblico? Riuscire a dire la verità nostra, come spettatori
ma anche come attori, rispetto a quella dei personaggi e delle storie
rappresentate?
Tutto ciò potrebbe scandalizzarci se
nella vita fosse davvero assente una certa dose di recitazione, se la doppiezza
non attraversasse il destino degli individui, se infine la maschera ci fosse
del tutto estranea. Eppure non può mancare il dubbio: chi siamo davvero? Siamo
più veri quando siamo noi stessi o quando rappresentiamo altro?
* Leggi anche su La Voce di New York:
* Leggi anche su La Voce di New York:
L’idea della performance
collettiva “permanente“ anima tutte le “serie” televisive e cinematografiche. A
prescindere dalla loro qualità
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