(ap) Una sala ricca di festoni colorati. Il bagliore
delle candele accese. Lo scintillio delle palle dorate riflesso sul verde dei
rami di abete. Le statuine dei personaggi intorno alla mangiatoia di una povera
capanna. I pastori, provenienti dalle lontane montagne e in cammino da giorni
in cerca di una luce. Le grida allegre dei bambini di fronte allo sfavillio dei
dolci e alla serenità ritrovata degli adulti. Non uno stanco rituale di fine
anno, da dimenticare al più presto, smaltita la frenesia del falso riposo, ma
una festa in cui, anche per chi non è credente, è prezioso il regalo reciproco
di pensieri fraterni, nel ricordo delle proprie radici, di ciò che ci ha
formato come persone e ha costruito la nostra storia.
Non dimentichiamo ciò che
ci è caro, le nostre conquiste. Abbiamo imparato che si può discutere di tutto,
senza paura; che il confronto e il dialogo sono le uniche strade percorribili; che
la libertà è il frutto faticoso e difficile, e perciò irrinunciabile, della
storia; che infine nessuna rivelazione rende accettabile l’arroganza della
verità. Per questo non possiamo non dirci cristiani. È il silenzio sulla
propria identità che crea smarrimento, la negazione di sé che diffonde il
dubbio e impedisce di ritrovare la fiducia in un futuro comune. Il confronto
con altre culture, o religioni, e differenti mentalità, non legittima la
censura delle nostre memorie, la rinuncia alle proprie radici. L’esortazione al
dialogo e al confronto che rivolgiamo agli altri esige che riprendiamo la
parola per definire il nostro essere uomini. E i valori per i quali non siamo
disposti a tacere.
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