(Introduzione a Marina Zinzani). Può una sola frase racchiudere il peso delle relazioni umane e il desiderio di libertà? Attraverso le pagine di "Festa mobile", Marina Zinzani ci conduce tra i bistrot di una Parigi perduta, dove la creatività cercava spazio tra i limiti imposti dal mondo e dagli altri.
(Marina Zinzani) ▪️
“Era sempre la gente a limitare la felicità.” È la Parigi degli anni Venti di cui Hemingway parla, quella che lui ricorda con struggente nostalgia. Si può immaginare un mondo a sé, affascinante e privilegiato, appuntamenti con altri scrittori come Scott Fitzgerald o pittori come Picasso, la creatività che si esprime con un foglio e una penna in un bistrot, la città che accende l’ispirazione, taglia le corde della propria identità e fa volare in alto, facendo assumere altri volti, i suoi personaggi, e vivendo in altri luoghi, quei luoghi che abbiamo potuto conoscere attraverso i suoi racconti.
L’operaio che si alza alle cinque del mattino, fa un tragitto lungo per arrivare al lavoro, il suo corpo stanco, la pensione meta così agognata e ancora lontana. Felicità con la sua compagna, un viaggio, una crociera, una botta di vita in un bel ristorante. Sogni. Il senso di qualcosa di limitante. Non una persona in sé che limita la felicità, ma un insieme etereo di cose che impediscono di vivere diversamente.
Hemingway parla del suo mondo, ma le sue parole evocano anche il nostro. Un mondo e persone che hanno limitato, come in un recinto, il gioire di una giornata, di un momento, di un periodo. Bastava poco, per rendere diverse tante giornate.
La Parigi di "Festa mobile"
“Quando giungeva la primavera, anche la falsa primavera, non restava che da risolvere il problema del posto in cui sentirsi più felici. L’unica cosa che poteva rovinare una giornata era la gente e se riuscivi a evitare di prendere impegni, non c’era giorno che avesse limiti. Era sempre la gente a limitare la felicità, tolti i pochissimi buoni proprio come la primavera.” (Ernest Hemingway, “Festa mobile”).“Era sempre la gente a limitare la felicità.” È la Parigi degli anni Venti di cui Hemingway parla, quella che lui ricorda con struggente nostalgia. Si può immaginare un mondo a sé, affascinante e privilegiato, appuntamenti con altri scrittori come Scott Fitzgerald o pittori come Picasso, la creatività che si esprime con un foglio e una penna in un bistrot, la città che accende l’ispirazione, taglia le corde della propria identità e fa volare in alto, facendo assumere altri volti, i suoi personaggi, e vivendo in altri luoghi, quei luoghi che abbiamo potuto conoscere attraverso i suoi racconti.
Oltre il mito: la realtà quotidiana
È tutto lontano dalla nostra realtà, quel mondo. Ma non quella frase, che rimane scolpita nella mente, “era la gente a limitare la felicità.”L’operaio che si alza alle cinque del mattino, fa un tragitto lungo per arrivare al lavoro, il suo corpo stanco, la pensione meta così agognata e ancora lontana. Felicità con la sua compagna, un viaggio, una crociera, una botta di vita in un bel ristorante. Sogni. Il senso di qualcosa di limitante. Non una persona in sé che limita la felicità, ma un insieme etereo di cose che impediscono di vivere diversamente.
I segni del passato
Le persone che si incontrano, che si sono incontrate lasciando segni avvelenati, parole che hanno inquinato, ferito, disilluso. Ambienti che sono rilegati a ricordi quasi rimossi, pagine da chiudere in fretta. Poteva essere tutto diverso, se non ci fosse stata gente a limitare la felicità.Hemingway parla del suo mondo, ma le sue parole evocano anche il nostro. Un mondo e persone che hanno limitato, come in un recinto, il gioire di una giornata, di un momento, di un periodo. Bastava poco, per rendere diverse tante giornate.

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