(ap)
In un angolo del Centro di arte contemporanea “Pecci” di Prato, aperto da poco
dopo un avveniristico ampliamento che l’ha trasformato in una navicella spaziale,
e dedicato alla presentazione delle ricerche artistiche più avanzate, risuonano
all’improvviso, melanconicamente, delle note inconfondibili, che richiamano
altri tempi.
Sono quelle scritte da Nino Rota per il finale di 8 e 1/2, il film realizzato da Federico Fellini nel 1963, forse il suo capolavoro, fonte di ispirazione per generazioni di registi, che sa stupire ancora oggi tra le opere più ardite degli artisti moderni. Le note attirano il visitatore e lo trascinano impetuosamente in quel girotondo circense in cui roteano tutti i personaggi nella scena finale del film. Un carosello di suoni e persone, mentre si smontano le scene di quel film che il protagonista, il “regista” Marcello Mastroianni, voleva realizzare ma che non si farà mai, dopo la sua decisione di abbandonare il set. Vittima non solo di una confusione professionale, non sapeva cosa raccontare né come farlo, ma di una incertezza esistenziale destinata a travolgerlo e a fargli smarrire il senso dell’esistenza.
Sono quelle scritte da Nino Rota per il finale di 8 e 1/2, il film realizzato da Federico Fellini nel 1963, forse il suo capolavoro, fonte di ispirazione per generazioni di registi, che sa stupire ancora oggi tra le opere più ardite degli artisti moderni. Le note attirano il visitatore e lo trascinano impetuosamente in quel girotondo circense in cui roteano tutti i personaggi nella scena finale del film. Un carosello di suoni e persone, mentre si smontano le scene di quel film che il protagonista, il “regista” Marcello Mastroianni, voleva realizzare ma che non si farà mai, dopo la sua decisione di abbandonare il set. Vittima non solo di una confusione professionale, non sapeva cosa raccontare né come farlo, ma di una incertezza esistenziale destinata a travolgerlo e a fargli smarrire il senso dell’esistenza.
Centro d’arte “Pecci” a Prato (foto ap) |
Eppure
in quei pochi minuti in cui si svolge la passerella finale degli aspiranti
attori del film impossibile, non si celebra un addio. Suoni struggenti, ritmi
onirici e suggestivi. La realtà si mescola al sogno. Gli interpreti non si
muovono smarriti e senza meta, privi di un destino e persino della guida che
attendevano sulle scene, ma sembrano dar vita come d’incanto, spontaneamente, a
quel copione che non era stato possibile realizzare. Si dirada il senso di
estraniamento che aveva angosciato il regista negli ultimi anni fino a
paralizzarne le idee, e si percepisce l’inizio di un’intesa tra lui e il mondo
circostante, attraverso gesti e parole. I ricordi, le fantasie, le difficoltà
del quotidiano, che avevano confuso il regista, ora disvelano un’appartenenza di
tutti quei personaggi, reali ed immaginari, così eterogenei e anche
strampalati, al suo mondo; ne attenuano lo smarrimento e forse ne stimolano la
creatività perduta. Ricontattare la propria innocenza, sentirsi bambino nel
caleidoscopio di quella musica e nella girandola fantasiosa dei movimenti, è
una sorpresa improvvisa che può farci riscoprire la gioia di vivere.
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