Racconto
di Valeria
Giovannini
Uscivo molto presto,
la domenica mattina. La casa di mio nonno distava alcuni chilometri che
percorrevo a piedi lungo file di viali alberati. Radunavo i miei pensieri. E
poi li liberavo in aria come palloncini colorati. Assaporavo ogni sensazione.
Il calpestio dei passi lievi. I suoni delle campane si rincorrevano dagli angoli della piccola cittadina in cui abitavo.
Il calpestio dei passi lievi. I suoni delle campane si rincorrevano dagli angoli della piccola cittadina in cui abitavo.
Giungevo davanti a
un imponente condominio bianco e grigio, pigiavo il citofono e salivo piano le
scale. I gradini dell’ultima rampa davanti alla porta dell'appartamento del
nonno erano prodigiosi. Sprigionavano il profumo del caffé appena preparato. E
mi fermavo qualche istante a respirarlo, prima di varcare la soglia. Il nonno
mi aspettava, puntuale, come solo i vecchi sanno essere. Hanno imparato che
ogni minuto è prezioso. Il nostro rito della domenica. Era un uomo di altezza
media, magro, bianco di capelli. Aveva un sorriso contagioso e vitale che
scaturiva dagli angoli più remoti del cuore e riempiva tutto il suo essere. Era
impossibile restare indifferenti al suo sorriso. Emozionava nel profondo, come
uno squarcio di sole.
Un abbraccio e la
nostra tazza di caffé. Il nonno si accomodava su una poltrona vintage, per non
dire su un rudere rattoppato... ma era tanto confortevole che non voleva
sentire di averne una moderna, magari con i pulsanti che alzano e abbassano lo
schienale. Il suo gatto Filemone amava affondare gli unghioli lì sopra. Io
sedevo alla sua sinistra, la parte del cuore. Da quel lato il nonno ci sentiva
meglio. Anche se in realtà era lui a parlare. Io lo ascoltavo in silenzio.
Vedovo da diverso tempo, aveva sposato mia nonna appena ventenne. Con lei,
creatura dolce e forte e fragile, aveva condiviso un matrimonio sereno e due figli,
mia madre e mio zio.
Mi rendevo conto che
mi sarebbe mancato moltissimo, nel momento in cui l’avessi perso. Quando la
nonna è scomparsa ero poco più che una bambina. E mi rattristava l’idea di non
avere potuto condividere le pieghe più intense del suo cuore. Poi sono
diventata adulta. E il nonno aveva una saggezza che mi rasserenava. Avevamo
stabilito il rito del caffè della domenica, un momento speciale, tutto nostro.
I pensieri e i sentimenti spaziavano liberi. E registravo ogni istante, ogni
espressione, ogni parola, con la consapevolezza che il nonno non sarebbe
vissuto in eterno. E volevo che le sue parole fossero per me chicchi di vita e
di ricordi. E intanto le mie inquietudini affogavano in una tazza di caffé.
“Allora, Nucci, di
che cosa parliamo oggi?” – iniziava così il nonno, mentre versavo il caffé
nella sua tazza preferita, uguale alla mia. Due “cup” bianche, con
decorazioni blu dell’inconfondibile stile Meissen che avevo portato da un breve
soggiorno in Germania, per inaugurare le nostre domeniche. Il nonno aveva
accolto con grande entusiasmo l’idea. Spesso il riserbo, nelle persone, viene
confuso con l’indifferenza o peggio, con l’apatia. E io avevo molto pudore
nell’esprimere i miei sentimenti. E il nonno comprendeva la mia timidezza. E apprezzava
il fatto che cercassi di superarla.
“Sai, nonno,
stanotte mi è apparso in sogno un vecchio vestito di bianco, i capelli lunghi e
la barba, intento in una sorta di meditazione. Aveva un’aria completamente
serena e rilassata. Mi diceva di non disturbarlo per le mie piccole paure. Ho
pensato a quante paure abbiamo, spesso ingiustificate, che alla fine ci rubano
vita”. Il nonno sorseggiava il caffé e poi cominciava. Filemone si stiracchiava
distratto e poi riprendeva a ronfare.
“Le tue parole,
Nucci, mi portano alla memoria il racconto della tempesta sul mare, nel Vangelo
di Marco. Un brano straordinario. Gesù calma la tempesta sgridando il vento e
intimandogli il silenzio. Una volta placatosi il vento, egli chiede ai
discepoli sulla barca con lui perché siano così paurosi. Quando siamo in
difficoltà, la cosa più saggia da fare è trovare il nostro silenzio. Come il
vecchio del tuo sogno. A che serve preoccuparsi? La vita va come deve andare.
Il che non significa certamente subirla. Ci viene chiesto, in questo nostro
passaggio terrestre, di prenderla in mano e imprimere noi la direzione.
Attraverseremo la tempesta e la bonaccia, tante e tante volte. Ma se impariamo,
nel nostro cammino, ad acquisire la forza del faro che resiste ai marosi e che
illumina il percorso, la tempesta non ci farà più paura.”
“Facile a dirsi,
nonno”. “No, non è facile a dirsi, mia cara Nucci. Non parlo così a caso. Ho
impiegato almeno metà della mia vita a convincermi che la paura è inutile. Può
essere utile, talvolta, soltanto per impedirci di compiere qualche imprudenza.
Vedi, in queste tue tre parole leggo ancora la paura. Invece occorre maturare
la fiducia. Qualunque cosa succeda, la potrò affrontare, se avrò fiducia.
Alcuni la chiamano fede. La fede può portare alla costruzione di idoli,
talvolta esterni a noi, rischiando di condurre al fanatismo. Io parlo invece di
fiducia. Forse in Dio, non lo so...In ogni caso è una fiducia che va trovata in
noi. Sì, al pari di Dio. E sai, Nucci, a mio parere, qual è l’ambito in cui è
più difficile mantenerla in tutta la sua purezza e autenticità? Nell’amore.
Paterno, materno, filiale, tra uomo e donna...Il demone dell’amore è il
possesso. E il possesso preclude la via alla fiducia. Alla libertà. Alla
serenità. Guarda anche solo come siamo tutti posseduti, nei nostri corpi, dal
nostro straripante io, dai cattivi sentimenti, dalle cose, dalle malattie,
perfino dalla morte. Credo che dovremo invece lasciar andare. E allora potremo
guarire. Sia nell’anima che nel corpo.”
Il demone dell’amore
è il possesso. Già. “E tu, nonno, da cosa ti senti posseduto?”, azzardai. “Alla
mia età, spesso ci si sente posseduti dalla solitudine. Quando viene sera, mi
sento solo. Solo in un senso diverso da quello che si può provare da giovani.
Non è nostalgia di mia moglie o lontananza dai figli o mancanza di amicizie. È
una solitudine meno totalizzante e più subdola. È fare i conti con te stesso.
Forse è la paura di morire. Ti ho detto che la paura è inutile. Ma di fronte
alla morte, in certi momenti ci si sente smarriti. Non di giorno. Ma di sera.
Chi teme il buio? I bambini e i vecchi. Gesù Cristo, prima di morire, ha
gridato “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Siamo soli, davanti
alla morte. E l’idea di questa solitudine talvolta mi possiede”. Il nonno avevo
uno sguardo serio e grave. Poi mi guardò, mi sorrise e mi chiese dell’altro
caffé.
“Quando la nonna si
ammalò, ebbe vicino fino all’ultimo la sua famiglia, me, tua madre, tuo
zio...eppure pochi giorni prima di spirare, il mio piccolo io egoista non capiva
la sua lontananza che via via, paradossalmente, si avvicinava. Lei si stava
distaccando da noi e io non lo comprendevo, non comprendevo come, nonostante
tutto, non potesse essere serena nell’averci tutti vicini, nel sentire tanto
amore. Mi era difficile ammettere che “osasse” passare oltre noi, con lo
spirito prima ancora che il corpo. E la risposta la trovai in quel meraviglioso
capolavoro di Tolstoj che è Guerra e pace. Quando Tolstoj descrive l’agonia e
la morte del Principe Andrej, sì, in quelle parole credo di aver percepito che
cosa provava la nonna. E ho dato un senso anche ai miei sentimenti. Al fatto di
non capire perché la nonna fosse assente, benché ancora tra noi. Pareva non le
importasse nulla del mondo, né della sua famiglia. E mi sentivo molto ferito.
Ero solo molto egoista. Me lo ha spiegato Tolstoj. Quando descrive lo sguardo
rivolto dentro di sé del Principe, la sensazione che tutto gli fosse
indifferente perché qualcosa di diverso e di più importante gli si andava
svelando, lì, nelle pagine più alte che mai siano state scritte, trovi il senso
della vita. Rileggi Guerra e pace, ma fallo quando qualcuno a cui tieni starà
per passare dall’altra parte, in modo da essere pronta...”
Il nonno si alzò,
andò verso la libreria e prese da uno scaffale il quarto volume di Guerra e
pace. Lo aprì nel punto in cui spuntava un segnalibro e cominciò a leggere
alcune parti tratte dai capitoli XV e XVI. Si fermò. Era commosso. Anche io mi
sentivo emozionata. Allora abbracciai forte il nonno. Gli dissi che gli volevo
bene. Lui mi diede un bacio. E ci preparammo un altro caffé, stavolta bello
forte... Filemone ci seguì in cucina, come sempre. Risvegliato, pure lui, da
tanto turbamento.
Qualche settimana
dopo, una domenica uscii di casa molto presto e sentii che l’estate era ormai
alle porte. Ero molto inquieta. La notte precedente mi ero svegliata di
soprassalto. Avevo sognato che una delle due tazze di Meissen si frantumava a
terra. Camminavo più fulminea del solito. Temevo potesse essere successo
qualcosa al nonno. Lui era molto affascinato, come me, dal mondo onirico. Ci
divertivamo tanto, nei nostri incontri, a raccontarci i sogni e a cercare
spiegazioni, a volte le più strampalate...
Arrivata davanti al
condominio del nonno, trovai un suo vicino che usciva con il cane. Mi salutò
cordialmente e si stupì nel vedermi lì sul far del giorno. Mi fece entrare.
Salii le scale e non sentivo il profumo del caffé. Il nonno non poteva
immaginare che sarei arrivata così in anticipo. Suonai a lungo. Sentivo
Filemone miagolare dall’interno dell’appartamento. Nessun altro rumore.
Cominciai ad agitarmi. Corsi al piano di sopra: il nonno aveva consegnato a una
vicina, la signora Agata, una copia delle chiavi di casa. Non si sa mai.
Premetti il campanello e bussai forte alla porta, chiamandola per nome.
Spaventata, mi aprì quasi subito in vestaglia ed estrasse le chiavi da un
cassettino. Poi scendemmo rapidamente le scale.
Trovammo il nonno
riverso a terra, accanto al letto. Era svenuto. Lo sollevammo da terra e lui
riprese poco alla volta conoscenza. Era confuso. Ci sorrise. Chiese alla
signora Agata di preparare un buon caffè. La vicina uscì dalla stanza e andò in
cucina. Filemone salì sul letto. Il nonno lo accarezzò e mi chiese sottovoce:
“Come hai fatto a capire che avevo bisogno di te?” e intanto continuava a
sorridere sornione. Non gli raccontai i dettagli del sogno, non lo volevo
spaventare. Che ingenua. “Stavolta vorrei smentire Tolstoj. Non so se ci
riuscirò. Ma tu leggilo comunque. Ti racconto una cosa che non ho mai detto a
nessuno. Quando è morta la nonna, ho immaginato di rivederla in ogni farfalla
che vedevo volteggiarmi accanto. La loro vita è pure breve. Ogni farfalla è un
pensiero alla nonna. Tutte e due hanno ali lievi.”
Gli occhi del nonno
si inumidirono. “E tu, ogni volta che sentirai profumo di caffé, sappi che ti
sarò accanto. Penserai a tutte le cose che ci siamo raccontati. A tutto ciò che
abbiamo imparato, standoci vicini. Soprattutto, ricordati di non avere paura.
L’universo ha un’alchimia che non ammette la paura. È infinitamente più saggio
di noi.”
Il nonno si fece
serio. Respirava a fatica. Fissava il vuoto oltre me. Vedeva altro. Io non
esistevo più. Gli strinsi forte le mani e sentii la sua anima volare via.
Intanto la signora Agata tornò nella stanza e pose le nostre due tazze sul
comodino. Il profumo di caffé pervase l’intera stanza.
Narrazione elevata, ricca d'ispirazione e di sentimento. È un tessuto di seta, intrecciato con sottilissimi fili.
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