di
Marina Zinzani
(Commento di Angelo Perrone)
(ap) Finalmente un rifugio, dopo anni di violenze, soprusi,
umiliazioni. La casa di accoglienza è una struttura protetta per le donne che
hanno subito maltrattamenti. Un luogo dove si sperimenta finalmente la
solidarietà. Forse per la prima volta. Ma è difficile pensare che sia una casa
come tutte le altre, solo più nascosta ed affollata. Un terremoto ne ha scosso
le fondamenta e ogni angolo ne conserva ancora le tracce tremende mettendo allo
scoperto i segni del trauma: il corpo violato e sfruttato, l’intelligenza
calpestata ed offesa, la bocca tappata, le ali spezzate.
Perdersi
nel bosco, perdere la strada di casa, io non ho più una casa, io sono scappata
di notte, mentre lui dormiva, le ferite ancora fresche. Sono scappata con il
mio bambino, corri, corri, non dobbiamo svegliare papà, una valigia, in fretta,
fai in fretta, dobbiamo andare piccolo mio, è solo un gioco, non avere paura.
Io
ho paura, tremo. Mi ammazzerà, se mi scopre ora. Mi porteranno in una casa
protetta, così le chiamano, luogo segreto dove ci sono altre donne maltrattate
come me.
La
notte e la macchina che arriva, ci porta via. E’ grigia la città. Persone che
escono, che parlano in gruppo, coppie normali. Gente normale. Immagini che mi
scorrono davanti lungo la strada. Ho freddo, e sono così fragile. Ma tu,
piccolo mio, lo sei ancora di più, e io devo essere forte, fingermi forte. Papà
è là a casa, è solo un gioco, andiamo a trovare una persona ora. Lacrime lungo
il viso, guardo dal finestrino. Io lo amavo.
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