Racconto di Paolo Brondi
Che nonno era mio nonno che nei giorni dal sole fioriti non mancava di condurmi, mano nella mano per ogni sentiero del bosco alla ricerca di funghi o di rossi mirtilli e, nelle sere lucenti di luna e di stelle, mi guidava in un mondo di fiabe e racconti di mirabile intensità e poesia. Nel salotto buono, ove quel “buono” allora valeva per “prezioso”, “intoccabile”, “discreto”, non frequentabile quotidianamente, ma in particolari momenti , teneva appese, al centro della parete di fronte alla porta d’ingresso, tutte le sue medaglie: quelle meritate nella guerra Italo-Turca (1911-’12), quelle conquistate lungo i tormentosi mesi dei combattimenti sul monte Grappa e a Caporetto, nella prima guerra mondiale.
Che nonno era mio nonno che nei giorni dal sole fioriti non mancava di condurmi, mano nella mano per ogni sentiero del bosco alla ricerca di funghi o di rossi mirtilli e, nelle sere lucenti di luna e di stelle, mi guidava in un mondo di fiabe e racconti di mirabile intensità e poesia. Nel salotto buono, ove quel “buono” allora valeva per “prezioso”, “intoccabile”, “discreto”, non frequentabile quotidianamente, ma in particolari momenti , teneva appese, al centro della parete di fronte alla porta d’ingresso, tutte le sue medaglie: quelle meritate nella guerra Italo-Turca (1911-’12), quelle conquistate lungo i tormentosi mesi dei combattimenti sul monte Grappa e a Caporetto, nella prima guerra mondiale.
Quando la sfera di luce attraversava la sala, sfiorando quelle fascette tricolori, dal bronzo dorato delle medaglie, tutto d’intorno si sprigionava uno sfavillio che, forse, rievocava nel nonno il fulgore delle sue battaglie nel deserto o fra gli abeti delle Alpi.
Tante le storie narrate su quelle battaglie! Ma su un racconto più volte insisteva. Mi teneva in braccio, mentre la luna si nascondeva dietro una stella e così narrava. Ricordava il gran vento di sabbia che in Libia nascondeva il nemico, lo rendeva insidioso, inaspettato. Un nemico che si celava dietro i vari muretti che costituivano la cinta dell’oasi di Tripoli, moltiplicando nel buio i suoi colpi di mano.
In uno di quei notturni assalti fu pugnalata una giovane indigena: una ragazza bellissima, di nome Elì, che quasi ogni giorno frequentava gli alloggiamenti italiani vendendo frutta. Sentivo il nonno commuoversi nel rivedere, con chiara immaginazione, quei suoi occhi, il bel viso, la delicatezza vellutata della sua pelle: l’aveva raccolta ferita ed esanime; l’aveva curata; si erano innamorati.
Lui aveva poco più di vent’anni e lei forse diciotto. In quella terra, in quel deserto, aveva superato ogni difficoltà, ogni avversità, sostenuto ogni giorno, ogni ora, dalla forza dell’amore. Quando il ghibli soffiava forte e il freddo incalzava, Elì lo guidava nella sua capanna e in quelle lunghe ore d’amore ascoltavano solo la loro passione. Poi, lui era tornato in patria e nulla più seppe della sua amata Elì.
Lassù, sulle Alpi, invece, sì potevano perfino vedere gli austriaci che puntavano le armi e osservare nell’aria le traiettorie dei proiettili. Granate incendiarie illuminavano l’orizzonte nel buio della notte e le artigliere austriache prendevano a martellare le posizioni italiane.
Infine si ritrovò a casa, accanto a tutti i suoi cari, il padre, la madre, i parenti tutti. Tutti insistevano a domandargli come avesse potuto salvarsi, con tutte quelle ferite addosso; chi lo avesse portato in ospedale per poi assisterlo per oltre dieci giorni… Pietro non ricordava gli avvenimenti appena trascorsi, né alcuna cosa sapeva di quella bella signora che tutti nominavano «È stata Lei a portarti in ospedale e a comunicare le tue esatte generalità e il nostro indirizzo. Poi è sparita, scomparsa in un mistero che ha dell’innaturale».
Pietro, scaltrito da anni di guerra, non credeva certo ai misteri, e appena riprese le forze si mise alla ricerca di quella signora. Girò per ogni dove, ma nessuno sapeva comunicargli notizie. Tornò all’ospedale, interrogò i medici dai quali ebbe l’unica informazione, che non era italiana. Tutti i parenti continuavano a dirgli che era stata la Madonna a salvarlo, ma Pietro sorrideva, sapendo che quella era solo una parte della realtà e che per lui, appena uscito da una disperazione fredda e una sofferenza estrema, si profilava uno spiraglio di sole, di speranza.
Camminava, con passo ancora incerto e sofferente per la guarigione lenta delle varie ferite, quel giorno in cui si avviò verso il suo mare: il gran vento di libeccio sibilava fra gli aghi dei pini, e senza posa sollevava le onde spingendole rumorosamente a frangersi sulla spiaggia deserta. Pietro stringeva più forte a sé il suo pastrano, coprendosi il viso con il lungo bavero e, badando bene dove posava i piedi, raggiunse la sommità di una duna, dove rimase immobile per l’incanto.
Quello spettacolo, così primitivo e selvaggio, aveva colmato l’immaginazione di Pietro per tutta la sua adolescenza e prima giovinezza, ma ora, pensando alla guerra e a chi lo aveva soccorso, gli sembrò ancora più meraviglioso. Quando giaceva nella notte scura della trincea, quando si sentiva vacillare nel mare tempestoso della guerra, non sapeva più che cosa sarebbe stata la sua vita, la sua salvezza…
Ora, sentendosi rinascere, avrebbe voluto gridare tutta la sua gioia, quando fu attirato da una voce dapprima incerta e addirittura confusa tra il rauco vociare dei gabbiani. Poi divenne più chiara e riconoscibile. Era l’imprevedibile che qualificava la sua esistenza. Era il passato che tornava a recuperare l’incompiuto… E apparve lei, la sua Elì. Il libeccio continuava a frantumare la luce del mare, le onde scendevano frementi sulla sabbia, come le lacrime di Pietro, destate dalla voce dell’amore, della sua Elì che, amata in terra di Libia, l’aveva sempre seguito fino a salvarlo. E che ora era lì, fra le sue braccia.
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