di
Marina Zinzani
(ap) Ne La ragazza con
la scodella di Felice Casorati, è
ritratta una donna forse assonnata, quasi ricurva su di sé, con una scodella in
grembo. Molto grande, piena di luce, splendente, in un ambiente dai toni scuri.
Dietro di lei, in sapienti accordi di luci ed ombre, un corridoio lungo. Lo
spazio che circonda la ragazza diventa infinito. Magari è tanto che attende.
Non importa però da quanto. Non conta la stanchezza negli occhi, nelle membra,
le palpebre abbassate. La vita vive di una attesa, aspra ma beata, perché
riguarda il compimento di un destino. Si attende qualcosa di eterno, il mistero
che accompagna i nostri giorni, frazionato in piccoli momenti, talvolta
smarrito, in un’atmosfera di sospensione indefinita e di magica solitudine.
Io
ti aspetto, sai. Ti aspetto da tanto, chissà se ti conoscerò quest’anno. Sere
silenziose, in casa, o perdute in un inutile vociare. Ti ho cercato fra la
folla, fra poche persone incontrate, volto da riconoscere, sì, perché non so
qual è il tuo volto.
Io
aspetto. Aspetto una chiamata, quella che mi darà finalmente un lavoro. E’
prezioso il lavoro, e non dovrebbe essere merce così rara. Dovrebbe essere alla
portata di tutti, con facilità, come l’acqua da bere, il pane da mangiare. Sono
sicuro che se arrivasse quella chiamata, gli occhi di mia moglie si
illuminerebbero. Lei allora preparerebbe un pasto buono, e una corrente di
gioia scenderebbe sulla nostra tavola. Che ora sembra cosa vuota, con scodelle
vuote.
Io
aspetto. Aspetto la fine della terapia. Poi si vedrà, dicono i medici. Ci sarà
una porta in cui entrerò un giorno, e lì mi diranno se ho tempo, ancora tempo.
Quante cose farò se avrò ancora tempo: viaggiare, leggere, incontrare le
persone che amo, fare nuovi incontri, passeggiare, scoprire l’alba, contemplare
il tramonto, bere un aperitivo al bar e vedere la gente che passa. E tutto, lo
so, mi sembrerà bellissimo.
Io
aspetto. Aspetto in questa casa vuota. Aspetto i nipoti. Ne ho tre, e vengono a
trovarmi ogni tanto. Il loro mondo giovane, la frenesia della loro vita, e la
mia casa fatta di ricordi, di persone che appaiono in foto. Triste guardare le
foto, emblema del tempo che passa. Basta! Sono stanca di aspettare qualcuno per
una parola, per un’ora di compagnia. Mi iscriverò a qualche corso, dicono che
l’Università degli anziani sia interessante, con persone sole, come me, povera
vedova. Ma da domani si cambia. Non sono ancora vecchia, io.
Io
aspetto. Aspetto una casa, un rifugio, una possibilità. Ce l’ho una casa, sono
anche di buona famiglia. Ma ogni luogo mi è ostile, non ho trovato ancora la
mia casa, io vago e non so dove. Pensano di curare la mia depressione con i
farmaci. Aspetto che tutto si illumini un giorno di una grande luce, e che
quella luce mi tocchi, mi tocchi per un po’.
Io
aspetto. Aspetto mio figlio. Gli presenterò un mondo che sembra diventato
crudele, luogo di paure, di orrori, di ansie quotidiane. Io lo aspetto, e so
che lui mi sussurrerà qualcosa all’orecchio, quando nascerà. Mi parlerà di
sogni, in luoghi bellissimi. Cercheremo di ritrovarli insieme, ogni giorno.
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