di
Lucia Bolognani
La
domenica della mia prima mezza maratona era una fresca giornata di settembre,
il cielo di un bel blu intenso di quelli che avvicinano le immagini delle
montagne come se le potessi toccare con mano. La frenesia con cui la
moltitudine di persone si apprestava a prepararsi alla linea di partenza
aumentava in me l'adrenalina come se già non fosse abbastanza.
Avevo
appena appuntato sulla mia maglietta il pettorale numero 95 con quelle
classiche graffette che solitamente sono così piccole che non riesci mai a
metterle nella giusta posizione senza pungerti le dita, anche per la grande
emozione che ti fa tremare le mani.
Fatte
anche le foto di rito con compagni di avventura, più d’una perché si sa c’è sempre
qualcuno che appare con gli occhi chiusi. Come non parlare del problema
“bagno”, code chilometriche ai Toi Toi azzurri, che se la corsa fosse usata
come terapia medica, il diuretico non servirebbe più a nessuno.
Per
calare la tensione cerco di scorrere mentalmente il gran numero di consigli che
gli amici veterani del mio gruppo sportivo hanno generosamente somministrato ai
neofiti come me che ancora non hanno provato il brivido della mezza maratona. L’ansia
è davvero troppa e me ne viene in mente solo uno in particolare: il controllo
delle scarpe. Attenzione! Devono avere il doppio nodo, se si slacciano durante
il percorso, sei già finita. Decido che ai consigli non voglio pensare e cerco
di distrarmi.
Ancora
ho impresso nella mia memoria olfattiva, se così si può dire, quel
caratteristico odore di canfora mista a mentolo che aleggia ovunque e
contraddistingue il runner di tutto rispetto,
che ha appena massaggiato i suoi preziosi polpacci con pomate d'ogni genere e
tipo. Osservo i visi degli sportivi di cui ormai sono circondata e mi diverto a
notare come ognuno di loro ha un’espressione strana e diversa, un po' comica;
chi saltella continuamente e controlla la sua ultima versione del Garmin, come
se fosse la soluzione risolutiva; chi chiacchiera senza fermarsi un attimo e
chi al contrario è muto come un pesce perché la paura di non arrivare fino in
fondo è tanta. Una cosa però c’è sempre e non manca mai, tutti hanno un bel
sorriso, non c’è tristezza e questa è la cosa più sorprendente che in quel momento
liberi una sensazione di felicità. Non ho mai visto un runner senza super sorriso alla partenza di una corsa.
Improvvisamente
dal megafono parte il conto alla rovescia, e di botto mi concentro distogliendo
i pensieri e le osservazioni. Tre, due, uno via!
La
tachicardia è elevata, cerco di partire piano per non affaticarmi troppo, in
teoria così si dice. La pratica però è tutta un’altra storia, e mentre vedo la
nuvola passare alla mia destra e alla mia sinistra, decido che proprio in
fondo, non mi va di stare.
Durante
i primi cinque chilometri è tutta una lezione di training autogeno per convincermi che ce la posso fare. Sono io,
sono otto mesi che corro per allenarmi a questa gara e dovrei essere pronta.
Quasi a una lezione di gruppo di mutuo-aiuto. Al quinto chilometro il primo
ristoro è quasi un miraggio, ma prendo solo un sorso d’acqua e continuo, la
strada è ancora lunga. Con soddisfazione osservo che dietro di me c’è ancora
molta gente e come si dice in gergo: ancora non vedo il "servizio scopa
" ovvero chi segue il fine corsa degli atleti che chiudono la gara.
Fino
al sedicesimo chilometro il training
funziona, poi la fatica comincia a farsi sentire, e penso a quel traguardo che
mi aspetta fra un po’, come un miraggio nel deserto. Pensieri strani cominciano
a passarmi nella mia mente, ma uno in particolare è comune a tutti, ne sono
pienamente convinta, ed è: ma chi me l’ha fatto fare!
Mi
riprendo, ho appena superato il diciottesimo chilometro, il più è fatto. Quando
mancano pochi chilometri, emozioni e sensazioni quasi indescrivibili si
confondono fra loro. Dal vero panico di non potercela fare, alla sana invidia
per quelli che hanno già terminato, alla consapevolezza che chi ti aveva detto
che era meglio se facevi un corso di yoga forse aveva ragione.
La
gente ai lati della strada fa il tifo a gran voce, ci sono, vedo in lontananza
l'arco gonfiabile azzurro dell'arrivo. C’è la scritta "finish", non è
un miraggio. All'improvviso non sento più la stanchezza e comincio ad aumentare
la velocità, un piede davanti all'altro sollevando di più le ginocchia e lo
sguardo fisso al timer dell'arrivo.
La
gioia e la soddisfazione di quel bip bip, che il mio microchip produce mentre
oltrepasso la linea, sono inebrianti e liberatorie nello stesso momento. Qualcuno
m’infila la medaglia al collo, e non me ne rendo nemmeno conto se non dopo
qualche minuto. All'arrivo l'abbraccio delle mie compagne di corsa che mi
attendono vale mille medaglie!
Obiettivo
raggiunto! Non ha importanza quanto ha segnato il mio orologio all’arrivo, e
quanti chilometri, se dieci, se ventuno, o se quando sarà una maratona, la cosa
importante è quello che mi ha lasciato nella mente e nel cuore. E mentre
riprendo fiato e asciugo le lacrime per l’emozione, già penso… a quando sarà la
prossima.
Nessun commento:
Posta un commento