Charlie Chaplin ha inventato una forma straordinaria
di cinematografia, muta ma così espressiva dei
sentimenti e della condizione umana, diventando l’icona novecentesca della vita
stessa raccontata attraverso la corporeità, in silenzio, senza parole
di Angelo Perrone *
Era una notte di Natale anche quella: nel 1977,
quarant’anni fa. Ci lasciava a 88 anni Charlot, nato Charles Spencer Chaplin
a Londra in una tipica periferia urbana da un padre ubriacone ed una madre
appassionata di canto ma senza talento. Un’infanzia difficile in orfanatrofio
diventa una scuola di vita, e lo porta prestissimo sul palcoscenico, prima come
cantante, poi come attore, e gli apre un percorso straordinario nel cinema della
prima metà del Novecento. L’uomo venuto dal nulla inventa una forma
straordinaria di cinematografia.
Mitico Vagabondo,
nell’omonimo film, vestito in modo buffo e sgraziato, destinato a vivere ai
margini della società e reietto dalla gente, ma non privo di una sua eleganza e
di una strana aria da gentleman decaduto. E’ persino dotato, lui così conciato,
di un’astuzia che gli consente di sopravvivere alle disavventure e talvolta persino
di affrontare personaggi tanto più grossi di lui, nel fisico e nella posizione
sociale. Inevitabile bersaglio della cattiveria umana, degli eccessi del potere
e di infausti eventi individuali che finiscono per accentuarne la malinconia
innata.
Quel vagabondo è un simbolo di generazioni di
giovani, negli anni ’20 e ’30, alle prese con i problemi della sopravvivenza e
con la difficile conquista di uno status sociale, di un lavoro e di un minimo
di dignità personale. Un’America divorata dalla crescita. Un destino in comune
con tutti i perdenti della terra, incapaci di emergere, di tenere testa ai
potenti, ai furbi, a chi è riuscito comunque ad affermarsi nella vita: unica
consolazione, tra gli esseri viventi, la compagnia di qualche animale,
soprattutto un cane, e, quando va bene, il languido sguardo di una fanciulla,
che però tutti, donne ed animali, condividono con lui la medesima condizione
miserabile e infelice.
In difficoltà in ogni situazione, è un operaio pasticcione
nei Tempi moderni, e diventa simbolo di un radicale
conflitto con l’angosciosa modernità delle macchine, delle catene di montaggio,
dei ritmi disumani di lavoro: la vertigine di un’epoca che vive un cambiamento
travolgente, ponendo l’uomo in un ingranaggio terrificante e alienante, capace
di schiacciare nella sua durezza ogni residua umanità. Un’inquietudine
rappresentata fisicamente da quel corpo magrissimo che volteggia frastornato
nella nuova e incomprensibile epoca moderna.
Interprete del cinema muto, solo ne Il
grande dittatore, sarcastica rappresentazione dell’abominio nazista,
affida alla figura del barbiere ebreo la loquacità di uomo mite in lotta
perenne con la cattiveria umana, e a quella dello stesso dittatore Adolf Hitler
la saggezza – impossibile - di uno strabiliante «discorso all’umanità». Ma non
manca di ritagliarsi dei momenti, quelli iniziali del soldato barbiere nella
prima guerra mondiale, ancora muti, al modo dei suoi personaggi storici.
In tante scene, sempre scritte, musicate, e recitate
da lui, fornisce forse la versione più alta e raffinata del “mutismo” nel
cinema, diventando l’icona novecentesca della vita vissuta senza parole. Ma non
senza storia, essendo riuscito proprio così a rappresentarne le pieghe più intense.
È tanto densa l’esistenza di Charlot: espressiva, piena di significati, lucida
nella rappresentazione della sofferenza e della allegria, della tristezza e dei
sussulti di gioia. Una gamma inesauribile di sentimenti e di emozioni,
dall’acutezza del dolore, al languore della malinconia, alla sfrenatezza della
gioia irragionevole. Per raccontare non solo lo spirito di chi nasce, vive e muore,
ma anche i guizzi di colui che prova a ribellarsi al destino già segnato.
Riesce a farlo usando un solo strumento espressivo, quel
corpo esile e agilissimo, leggero e mobile, da muovere e agitare a piacimento,
secondo il caso e le esigenze. Non la voce. Certo questo avveniva per i limiti
tecnici del cinema di allora, ben diverso da quello tecnologico e avveniristico
di oggi. Ma non era solo un fatto di necessità. La mancanza di voci e di suoni non
è un limite in quella rappresentazione dell’esistenza, piuttosto un modo
raffinato di perseguire la dimensione esile della purezza espressiva, nella
quale ogni parola è superflua e forse inutile. E per questo quel silenzio è tale
da lasciare davvero senza parole anche lo spettatore.
Era sempre se stesso Charlot con il suo corpo, le sue
idee, il suo modo di intendere la vita, e nello stesso tempo così diverso nelle
varie stagioni dell’esistenza, nella diversità degli incontri, nei momenti
alterni della giornata. Quasi una molla eternamente carica e consapevole, per
mostrare le ferite dell’animo, le rivolte della mente, il peso delle avversità
nel quotidiano. Una vita in perenne allerta, sofferente ma in qualche modo
indomita, persino pronta a una soprassalto di dignità, una reazione di energia,
contro i vicini prepotenti, e spacconi.
Ma soprattutto la corporeità dell’espressione si
concentra nella mimica del viso illuminato dagli occhi dolcissimi e
malinconici, e ed esaltata dagli eterni baffetti neri, “a spazzolino“, languidi e mai minacciosi:
elementi capaci di costruire l’immagine di un uomo mite, perennemente alle
prese con le disgrazie della vita, e però dotato di un’arguzia, che se non gli
permette di sovvertire radicalmente l’infausto destino, così comune a tanti, di
uomo sconfitto dalle avversità, almeno gli consente di sopravvivere. E di
superare le tragedie più brutte. Si può trovare in questo modo una via di
riscatto dalla miseria, dalla malvagità e dall’ingiustizia, nel viaggio
sofferente della vita.
«E va bene così, senza parole», canta Vasco
Rossi. Per necessità oppure per scelta, si vive anche senza parole,
nel silenzio misterioso ed illuminante del viso e del corpo. Hai l’impressione
che tutto ti sia avverso, ti rubano il tempo e la dignità. Non riesci più a pensare,
e fai fatica a ribellarti e a dire la tua, a trovare le parole per contrastare
il male. Forse non ce la fai neppure a sopravvivere. E soffri una terribile solitudine.
Non importa. Fuori, talvolta, c’è il sole. E se il cielo è cupo, magari incontri l’affetto di un cane, o gli occhi lucidi di una ragazza. Non pensi che siano esseri anche più sventurati di te. Ti basta quel contatto e ricambi con affetto i loro piccoli gesti. Davvero all’umanità «non servono più macchine», ma solo «più bontà e gentilezza». Ci sono tanti modi per dirlo. Anche senza parole.
Non importa. Fuori, talvolta, c’è il sole. E se il cielo è cupo, magari incontri l’affetto di un cane, o gli occhi lucidi di una ragazza. Non pensi che siano esseri anche più sventurati di te. Ti basta quel contatto e ricambi con affetto i loro piccoli gesti. Davvero all’umanità «non servono più macchine», ma solo «più bontà e gentilezza». Ci sono tanti modi per dirlo. Anche senza parole.
* Leggi anche:
Charlie Chaplin, l’espressività dei sentimenti in una
vita senza parole, di Angelo Perrone,
La Voce di New York:
http://www.lavocedinewyork.com/arts/spettacolo/2017/12/28/charlie-chaplin-lespressivita-dei-sentimenti-in-una-vita-senza-parole/
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