Al Teatro Grassi di Milano, in scena la corrispondenza epistolare, durata 26 anni, tra un ergastolano e il giudice che
l’ha condannato: una riflessione sulla funzione della pena
di Angelo Perrone
La scena è divisa in due parti. Siamo in Italia, ma potremmo essere
ovunque. Un’inferriata le separa rigidamente impedendo ogni passaggio fisico da
un ambiente all’altro, lasciando tuttavia, con quei riquadri della grata, gli
spazi minuscoli di una possibile comunicazione verbale. Solo la parola, forse,
può attraversare lo sbarramento altrimenti insuperabile.
Da un lato, una scrivania con una sedia, un ambiente di studio in cui la
toga sull’attaccapanni segnala la professione di chi occupa la stanza, è un
magistrato. L’altro lato è occupato da una branda con degli indumenti in
disordine, è la cella di un detenuto, piena di piccole cose, racconta che
l’uomo vi si trova da molto tempo.
Una produzione del “Piccolo” mette in scena al Teatro
Grassi di Milano, sino al 22
dicembre, un testo di Paolo Giordano con la regia di Mauro Avogadro, tratto dal
libro “Fine
pena: ora”, di Elvio Fassone (Sellerio, Palermo, 2015).
Non un romanzo frutto di pura fantasia, semplice invenzione ambientata
nelle carceri, né un saggio scientifico sull’ergastolo, o in genere sulla
funzione della pena quando essa non ha un limite, se non il tempo naturale
della vita umana, o quello introdotto a nome dello Stato dai suoi
rappresentanti.
In America 37 stati mantengono la pena di morte (si può
scegliere dalla camera a gas della California alla iniezione letale di New
York, alla fucilazione dello Utah) come sanzione estrema per i propri
condannati, soltanto 13, più quello di Washington DC, l’hanno abolita.
Qui, in questo lavoro teatrale, è una storia vera quella che racconta la “strana
relazione” a distanza, sviluppatasi tra due persone che per 26 anni si sono
scambiati una assidua e regolare corrispondenza. Con le lettere di una volta, i
suoi tempi e i suoi inconvenienti, non i messaggi o le mail di oggi, come
poteva accadere soltanto in quel tempo che ci appare così lontano.
Tante missive, scritte in silenzio e scandite dall’attesa della risposta:
più che se fosse stata una storia d’amore, una vicenda di passione o di sesso,
o semplicemente un carteggio tra intellettuali, comunque vicende in qualche
modo comuni e ordinarie, con ruoli prevedibili e identità conosciute.
Tutto inizia con l’invio di un libro, accompagnato da brevi righe, da
parte di Fassone, all’epoca magistrato, al giovane Salvatore, un imputato che il
primo, come presidente della corte di assise di Torino, ha contribuito a
condannare all’ergastolo.
Dopo la fine del processo a carico di Salvatore e di altri appartenenti
ad un clan della sanguinosa mafia catanese, siamo nel 1987, il magistrato prende
quell’iniziativa, che ha un seguito, dando appunto origine a un singolare scambio
di missive, con uno stile corretto e rispettoso (“caro presidente”, “caro
Salvatore”), durato a lungo nel tempo: Fassone intanto ha altri incarichi, va poi
in pensione, ma il dialogo con Salvatore continua lo stesso.
Il giudice e il suo imputato condannato all’ergastolo (“fine pena, mai”),
in un confronto fitto di idee e di stati d’animo, senza equivoci tra loro:
nessun ripensamento da parte del magistrato riguardo alla condanna inflitta, né
facili compiacenze dell’ergastolano verso l’autorità che gli aveva inflitto la
massima pena prevista dall’ordinamento italiano. Piuttosto momenti di una
riflessione alimentata da spunti quotidiani e da osservazioni minime.
Il giudice sente di dover compiere un gesto di umanità verso chi deve
affrontare un destino tragico perché privo di speranze, e rimarrà recluso a
vita in un carcere. Salvatore ricostruisce il proprio vissuto di proletario,
indica le proprie radici in un ambiente criminogeno che ha condizionato le sue scelte
e che è tanto diverso da quello – borghese ed intellettuale – dove è cresciuto e
ha studiato il giudice. Ha contato anche questa differenza, tanto da indurlo a
scrivere: «se suo figlio
nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia».
La cultura e la geografia possono essere determinanti. Ma non
cede, Salvatore, ad alcun alibi personale, non si giustifica, non cerca scuse
al suo operato comunque sanguinoso. Attraverso lo studio, il difficile lavoro
in carcere, e soprattutto la risorsa di quella preziosa corrispondenza con il
giudice, egli compie un percorso di crescita che pure non lo mette al riparo da
momenti di sconforto, rassegnazione, delusione, proprio perché, oltre alla
durezza del quotidiano, accresciuta dall’applicazione del regime rigido del 41
bis, la sua è una pena che non prevede alcuna
fine, è senza speranza perché dovrà rimanere
in quella cella per sempre.
Il racconto ricerca deliberatamente l’ambito del colloquio
dimesso tra persone, del fondo di umanità che si cela in chiunque, ricerca i
possibili spazi di dialogo con gli autori di crimini efferati nel rispetto
assoluto verso le vittime, ma pone comunque e forse proprio per questo, in modo
più coinvolgente, domande inquietanti: come conciliare il bisogno di sicurezza
con il principio della riabilitazione della persona, sancito dall’art. 27
Costituzione, durante l’espiazione della pena.
Al centro, il tentativo difficile di conciliazione tra i termini diversi
e persino contrapposti che sono propri della multifunzionalità della pena (dal
ruolo retributivo del torto provocato a quello di prevenzione del crimine
futuro, infine a quello rieducativo della persona). E soprattutto il bisogno di
non rinunciare alle domande sulle ragioni che portano ad infliggere una pena così
drastica in una società che ha smarrito le sue certezze. Non va comunque
lasciata aperta la porta alla speranza che il criminale possa diventare una
persona nuova?
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