La storia di Lorenzo e dei
suoi amici di infanzia Nicola e Maria. Un rapporto che non lo protegge da atti
di violenza per il segreto che custodisce e che lo porta verso la tragedia. A
distanza di tempo, la ricerca della verità su quel suicidio è anche l’inizio di
un percorso di crescita individuale
Romanzo
di Marina Zinzani
Nicola cerca di riparare alla morte, di più di
vent’anni prima, di Lorenzo, suicida dopo le accuse di omosessualità.
Vuole fare pubblicare un suo libro di poesie.
Lorenzo, il ragazzo marocchino dagli occhi blu, amico fraterno, è rimasto nel
cuore di molti.
La ricerca della verità, di chi innestò i
sospetti, di chi raccontò verità scabrose su Lorenzo e sul professor Riccardi,
diventa per Nicola un percorso ardito e doloroso. Forse è stata Maria, la loro
amica tanto amata, a tradire Lorenzo. O forse no. Neanche Nicola è esente dai
rimorsi, per non avere difeso l’amico. Forse ha innescato proprio lui la miccia
che l’ha portato al suicidio.
La difficile ricerca della verità si mescola ad
un processo personale di consapevolezza: ciò che si è stati, quello che si è
perduto, quello che poteva essere e non è accaduto.
Forse certe scoperte sono un regalo lasciato
proprio da Lorenzo, uno che non ce l’ha fatta nella sua sfida di vita.
Il romanzo è pubblicato a puntate, in queste
date: 20, 23, 26, 29 novembre; 2, 5, 8, 11 dicembre 2017. Ognuna con brevi note
illustrative, anche per dar conto delle puntate precedenti.
IL MARE
(8 capitolo)
Nicola si rinchiuse nello
studio, era sera tardi, Nina era già andata a dormire. Accese la lampada che
emanava una luce arancione, prese dal mobiletto il manoscritto di Lorenzo,
quello che non aveva ancora letto. Era un romanzo non molto lungo, scritto a
macchina. Si intitolava “Senza nome”.
Cominciò a leggere. Ogni
parola, ogni frase, erano la conferma del suo talento. Per quanto le poesie
fossero belle, per quanto i suoi appunti fossero profondi, l’abilità con cui
scriveva era presente soprattutto in quelle pagine. Una scrittura essenziale e
a tratti rigogliosa, delicata e intensa.
Le parole avevano portato
Nicola a Parigi.
Era il 1900, e uno studente
si era fermato in un caffè. Qui aveva riconosciuto uno scrittore, sapeva che
viveva a Parigi in quegli anni, sapeva che c’era stato un processo e che lui si
era fatto anni di prigione con un’accusa infamante. Lo vedeva lì, solo, seduto
ad un tavolino, con lo sguardo assorto. Tutti erano in compagnia, lui no.
Lo studente allora gli aveva
chiesto se poteva sedersi accanto a lui, gli aveva detto che anni prima aveva
visto una sua commedia e letto dei suoi libri. Lo scrittore era stato gentile,
e aveva acconsentito.
Avevano cominciato a parlare,
poi si erano alzati, avevano fatto una lunga passeggiata lungo la Senna e si
erano soffermati in una chiesa vicino all’hotel dove lo scrittore viveva. Lo
studente gli parlava della sua passione per la scrittura, gli parlava di
racconti che aveva scritto, e mano a mano che parlava sentiva salire il
compiacimento: era in compagnia di lui, lui che era stato così famoso.
Non gli aveva chiesto del suo
passato, di come fosse la vita a Parigi in esilio: bastava leggere negli occhi
dello scrittore per capire tutto.
Lo studente lo rivide nei
giorni seguenti, si davano appuntamento al Café de Flore. Lo studente aveva
portato un giorno un piccolo racconto, voleva un giudizio e lui gliel’aveva
dato, l’aveva incoraggiato a continuare. Qualche piccola imperfezione, ma la
scrittura era buona, gli aveva detto.
Percorsero insieme dei viali,
conversando, c’erano donne eleganti, carrozze, lo scrittore camminava con un
bastone. Aveva avuto un amante che gli aveva procurato la rovina, ma lo
studente non gli chiese mai nulla.
Andarono al Père-Lachaise, lo
studente non c’era mai stato, eppure lì erano sepolti i personaggi più famosi.
L’immenso cimitero era fatto
di gioielli. Tombe su cui stavano nomi scritti sui libri, sembrava che tanti,
quasi tutti, si fossero dati appuntamento lì, nel silenzio, nella quiete, fra
di loro.
Oscar Wilde camminava con passo
incerto, toccandosi spesso l’orecchio di cui aveva accennato un lieve dolore.
Camminava e si soffermava in un mesto silenzio di fronte a tombe e poi
commentava, illustrava. Lo studente pendeva dalle sue labbra. Da quel corpo
stanco, decadente, scaturiva ancora la bellezza.
Avrebbe voluto dirglielo,
parlargli come si parla con un padre, con un amico, con un confidente. Come
poteva essere colui che capiva, che poteva capire perché accomunato dalla
stessa natura.
Fu davanti alla tomba di
Chopin che lo studente si aprì. Sapeva che non era bene ciò che stava per dire,
sapeva che sarebbe stato inopportuno presentarsi così, nudo, come era nuda la
verità senza orpelli.
Anche lui amava quelli di cui
non potere rivelare il nome. E gli aveva parlato di un addio. Di una scena
triste. Di un amore finito. Di un addio consumato in un bar, con un amico che
aspettava seduto in un angolo, intirizzito dal freddo, che cercava di scaldarsi
con un tè e che stava per venirlo a cercare. Del ragazzo del bar che gli aveva
detto: “E’ finita, non voglio che nessuno sappia di noi, non me la sento, dopo
le chiacchiere che girano sul tuo conto.”
Le parole dello studente erano
uscite dalla sua carne, come se l’avessero squarciata e fosse uscito del
sangue. Aveva guardato lo scrittore, ne aveva cercato una parola. E lo
scrittore gli aveva messo una mano sulla spalla e insieme erano usciti dal
cimitero. Come un padre, come un amico.
Il giorno dopo lo studente
era andato al Café de Flore ma non lo aveva trovato. Era andato così al suo
albergo.
Qui, un uomo gli aveva detto
che Oscar Wilde stava molto male, l’infezione all’orecchio stava peggiorando, e
forse non ce l’avrebbe fatta.
Ora, ora che aveva trovato un
amico con cui aprirsi, sentiva che l’aveva già perduto.
Nicola smise di leggere. Si coprì
il volto con le mani.
Era un giorno freddo, c’erano
ancora delle tracce di neve che era caduta. Lui e Lorenzo si erano seduti in un
bar, lui avrebbe voluto fermarsi molto prima perché aveva freddo, voleva
prendere qualcosa di caldo, un tè, un cappuccino. Invece Lorenzo lo aveva
convinto ad andare in un bar che distava un chilometro, e c’erano arrivati
tutti infreddoliti. Il bar precedente era sporco, così aveva detto Lorenzo, e
un altro non andava bene. Alla fine erano arrivati ad un bar dalle parti di
Porta Genova, che poi non era un granché.
Si erano seduti ad un
tavolino in un angolo, Lorenzo era andato subito in bagno. Era passato un
quarto d’ora, Nicola batteva le dita nervosamente sul tavolo. Aveva freddo,
voleva qualcosa di caldo, la temperatura era sicuramente sotto zero e i guanti
non avevano protetto poi tanto le mani. Lorenzo era svanito.
Allora Nicola si era alzato,
magari Lorenzo si era sentito male in bagno, aveva pensato, e invece no, lo
aveva intravisto parlare con il barista, a bassa voce… Allora era
indietreggiato, era tornato al tavolo…
Dopo venti minuti, Lorenzo
era tornato.
“Pensavo ti fossi perso. Io
ho ordinato un tè. Ho le mani gelate.”
“Hai fatto bene.”
“Ho visto che parlavi con
quello del bar… Lo conosci?”
Lorenzo aveva scrollato le
spalle. Nicola, preso dai suoi problemi di freddo e ora anche di fame, bevve il
tè e mangiò due pasticcini.
Lorenzo lo guardava e taceva.
Rispondeva solo a monosillabi, a bassa voce, alle cose che diceva lui, che poi
era passato all’argomento calcio.
“Andiamocene” aveva detto
Lorenzo poco dopo, senza neanche prendere qualcosa da bere.
Nicola lo aveva accontentato
e prima di uscire aveva incrociato lo sguardo del barista. Guardava Lorenzo.
Mancavano poche righe da
leggere. Nicola tirò un profondo respiro.
“Lo accompagnò, lungo quella
strada. Camminavano insieme, lo scrittore aveva un’andatura sempre più lenta,
incerta, il suo respiro si faceva affannato. Camminavano lungo un viale pieno
di alberi, lungo la Senna, lungo i negozi dagli odori di pesce, di vita,
camminavano guardando le carrozze, i vestiti colorati delle donne, i cappelli
degli uomini. Camminavano e le immagini si facevano sempre più rade, si
vedevano solo le sfumature ora…
Poi calò la nebbia, e nessuno
si accorse che erano svaniti, che erano passati di lì…”
*********
Pioggia. Pioggia e sale sulle
labbra. Il sale delle lacrime che scivolavano giù, lungo il viso. Il sale del
mare, le case blu. I vasi appesi, foglie di vite lungo i vicoli, Matisse e
Tangeri.
Le porte dipinte di blu, il
tramonto, i Berberi. Echi lontani, gli antichi re, la casbah.
Pioggia e sale. Il blu del
mare che lambisce gli scogli.
Le lacrime che lambiscono i
contorni delle labbra, il sale che si sente sulla lingua, penetra la bocca, la
pelle e brucia.
Pioveva quel giorno, una
pioggerella insistente che cadeva sulle scarpe, pioveva ed era svanita ogni
gioia. Era un funerale, quello. Il funerale di Lorenzo.
Hiroshima. La morte di
Marilyn. L’assassinio di Kennedy. Nelle gambe di Nicola c’erano le catene degli
schiavi, la paralisi che porta alla sedia a rotelle, il bisogno di sedersi dopo
una brutta notizia.
E sulle mani un tremore
lieve, quando accarezzò la bara.
Correva in motorino, con lui
dietro. Era un giorno di maggio, degli amici comuni li avevano presentati. Si
era fatto tardi, e Nicola gli aveva proposto di accompagnarlo a casa.
“Dai, vieni su!” gli aveva
detto Lorenzo, davanti al suo portone.
E Nicola era salito, e aveva
conosciuto sua madre e lei gli aveva preparato un tè alla menta. Una grande
foto di Tangeri, raffigurante un vicolo dipinto di blu, era appesa alla parete.
Discorsi, libri, la sua camera. Perdere quasi la cognizione del tempo. Darsi
appuntamento l’indomani.
E poi altri
giorni, altri appuntamenti per anni.
La mano sulla bocca, come per
impedire che uscissero i suoi lamenti. Sibili, frammenti di voce fermi nella
gola. La madre sorretta, straziata. Lui senza il coraggio di avvicinarsi a lei.
Parole che non uscivano. Uno
sguardo verso Maria. Gli occhi rossi. Gli occhiali scuri di lei.
Parole di circostanza. Lo
conoscevi bene… Eravate molto amici…
E per un attimo Nicola rivide
il quadro di Matisse, la finestra che si apriva su Tangeri, il blu, tutto era
blu. Da quella finestra magica, Lorenzo forse aveva visto il mare. Quello di
cui parlava, quello che si portava dentro.
*********
Giovane e bellissimo. La
bellezza di chi non è invecchiato, la bellezza di chi ha un talento che Dio gli
ha dato per poi riprendersi il suo corpo integro, non devastato dal tempo. Una
sorta di dio pagano che ha illuminato chi gli stava vicino, la santità degli
artisti.
Così cominciava la prefazione
al libro di Lorenzo, quella che aveva scritto il professore. Avevano scelto con
cura il nome della raccolta di poesie, “Il mare di Tangeri”. A Nicola era
piaciuto quel titolo, e vedere il libro stampato gli aveva fatto un certo
effetto.
Si erano trovati tutti un
sabato pomeriggio nella libreria di Romana, c’erano Nicola, Barbara, Andrea,
Guido, Ottavia ed Agata.
E poi era arrivato lui, con
passo lento, elegante come ai vecchi tempi. Il professore si era messo una
pochette a pois bianca e blu, una camicia bianca e una giacca blu su un paio di
jeans. Sembrava improvvisamente ringiovanito, come se avesse bevuto uno strano
elisir, una bevanda degli dei. Era emozionato, come tutti loro, e si vedeva.
“Allora, procedo?” chiese
Romana.
“Sì, vai” disse Barbara, a
voce bassa.
Romana prese in mano i volumi
e li collocò ad uno ad uno lungo tutto il piano centrale della vetrina.
“Questo lo puoi spostare un
po’, forse tutti li puoi spostare un po’” disse Andrea.
“Così va meglio?” chiese
Romana, spostandoli leggermente.
“Sì, così va bene.”
Nessuno, per qualche attimo,
disse niente. Stavano lì, a guardare la lunga fila di libri. La suggestione di
un rito, il mistero di gesta che sigillano, che danno un’impronta alla vita, la
bellezza degli artisti, la tragedia di chi è caro agli dei. Barbara si passò
una mano sugli occhi, Nicola guardava per terra e si premeva le labbra, il
professore era lì, guardava i libri e non diceva nulla.
“Ragazzi, io ho preso i
pasticcini! Dobbiamo festeggiare!” disse Ottavia.
E allora si avvicinarono al
banco e aprirono un cabaret di paste, e voci che diventavano sempre più vive e
gioiose riempirono la stanza.
*********
Il tempo non era stato
clemente, nei giorni precedenti. La pioggia era caduta incessante e faceva
quasi freddo.
Quel week-end in riviera era
stato voluto da Nicola, e Nina l’aveva assecondato perplessa. Non c’era niente
a Gabicce in bassa stagione, e Nina aveva come sempre parlato tanto, criticando
in qualche modo quella scelta.
Ma Nicola non l’aveva
ascoltata.
L’albergo era semivuoto,
sembrava quasi di essere in montagna, anche se di sotto si vedeva il mare.
Non c’era problema per le
stanze, questa volta si poteva occupare quella con la vista migliore. L’estate,
con la gente, la spiaggia affollata, era ancora lontana a venire.
Mentre Nina sistemava la
valigia, Nicola andò in balcone. Ecco, si vedeva perfettamente il mare, da lì.
Era un mare senza onde, un
po’ grigio e la spiaggia si intravedeva, seminascosta dalla vegetazione.
Sarebbe arrivato il caldo e tutto si sarebbe rianimato. Ombrelloni, turisti, la
vita.
Nicola per un attimo si
pentì: cosa c’era venuto a fare a Gabicce in primavera, cosa stava cercando?
Allora chiuse la porta del
balcone e disse a Nina che scendeva a fare due passi. Si mise il giubbotto e
uscì dall’albergo. Si incamminò lungo una stradina, in un piccolo bosco che
scendeva fino alla spiaggia.
La vegetazione era davvero
rigogliosa, non riusciva a ricordare uno scenario simile che portasse al mare.
Poi, fu come se il tempo si
fosse fermato. Lui e il mare. Lui, appesantito e stanco, lui che non aveva
capito niente di chi gli stava vicino, lui che non aveva avuto il coraggio di
difendere Lorenzo, lui che non lo aveva salvato.
Si sentì solo, un illuso, un
sopravvissuto. Eppure per la prima volta si sentì vivo.
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