Gesti delicati e sapienti per costruire un aquilone: come la lenta tessitura dei rapporti tra padri e figli
Racconto
di Angelo Perrone
Era un giovedì di dicembre, e quel giorno
sarebbe stato difficile immaginare che mancavano
pochi giorni alle vacanze natalizie. I negozi che sorgevano in quella strada erano
in ritardo nella preparazione degli addobbi. Le vetrine della zona erano ancora
spoglie, mancavano alle finestre i colori della festa, la gente si aggirava
distratta tra i banchi del vicino mercato all’aperto e non mostrava curiosità
per i prodotti esposti.
Faceva freddo nella tarda mattina ed
Ernesto era già per strada ad attendere Gioia che doveva uscire dalle
elementari al termine delle lezioni del suo secondo anno di scuola. Fermo sul
marciapiede, le mani in tasca, il bavero del cappotto alzato sul collo per
ripararsi dalle folate improvvise di vento. Aveva preso l’abitudine, uscendo
dall’ufficio al ministero, dove lavorava, di attendere Gioia con molto anticipo,
non gli importava aspettare.
Per un po’, si guardava attorno, osservava
curioso il via vai intenso sui marciapiedi, incrociava lo sguardo con i
passanti, con gli altri genitori che piano piano arrivavano lentamente,
salutava qualcuno che conosceva. Talvolta poi, nell’attesa, lo sguardo
diventava assorto, spesso gli capitava di fissare dei punti lontani nel vuoto,
preso nei suoi pensieri, incurante del rumore provocato dal traffico romano,
già intenso e caotico in quegli anni lontani.
Gioia frequentava allora le elementari in
un istituto di suore che si trovava non molto lontano da casa, alcune centinaia
di metri soltanto, eppure un po’ per la distanza e un po’ perché il tragitto
richiedeva l’attraversamento di alcune strade di grande scorrimento usate soprattutto
dai pendolari, non le era consentito tornare a casa da sola al termine delle
lezioni.
L’edificio, costruito nel dopoguerra, era
piuttosto grande, a cinque piani, ospitava molte classi, ed era circondato da
un giardino dove si raccoglievano gli studenti per l’intervallo della
ricreazione. In maggioranza, l’istituto era frequentato da bambine, pochi erano
i maschietti, solo un’eccezione nella composizione delle classi.
Gli alunni indossavano un grembiule, che
era, per tutti, dello stesso colore bianco, ma con dei grandi fiocchi intorno
al collo, diversi a seconda del sesso. I maschi si distinguevano per i loro
nastri a piccoli quadretti bianchi e celesti, mentre la scolaresca femminile li
aveva bianchi e rosa. Il cortile dell’istituto, un grande giardino accanto al
palazzo, verso le 11 di tutte le mattine, era invaso dal vociare allegro dei
bambini per la pausa della ricreazione. I bambini si rincorrevano con in mano il
panino confezionato in casa, la “pagnottella” romana, ripiena di prosciutto o
di mortadella. Il gioco era animato dagli scherzi tra i pochi maschi che
frequentavano l’istituto e le tante femminucce che spesso si approfittavano del
numero soverchiante.
La divisa, pur comune a tutti salvo il
colore del fiocco, poteva avere un altro segno colorato, che dava
un’indicazione inequivocabile del merito e della bravura del bambino. Una
fascia con lo stemma dell’istituto, l’ “Immacolata”, portata al braccio
sinistro, segnalava il rendimento scolastico dell’alunno nel corso dell’anno
scolastico. Blu, al primo trimestre, verde al secondo, rossa al terzo ed
ultimo. Il segno distintivo non era molto frequente a dimostrazione del rigore
cui si ispirava l’insegnamento in quegli anni.
Ciò accadeva naturalmente a condizione
che il rendimento fosse stato costante e progressivo, perché erano possibili
“retrocessioni” improvvise in caso di insuccessi scolastici o di comportamenti
non improntati a “buona condotta”, come sempre veniva allora definito
l’atteggiamento verso i compagni e di fronte alle suore che gestivano
l’istituto e che erano anche le maestre. In questo caso, si tornava indietro,
avveniva la temuta retrocessione, e veniva tolta la fascia posseduta: da lì
poteva iniziare allora un percorso nuovo e si doveva ripartire dalla iniziale fascia
blu, se il comportamento tornava a farsi meritevole.
Gioia guardava sempre le fasce consegnate
ai più bravi con ammirazione e un pizzico di invidia: nonostante andasse
abbastanza bene negli studi, e non ci fosse nulla di grave da rimproverarle per
la condotta, non le sarebbe mai riuscito, anche negli anni a venire, di andare
oltre la fascia verde: quella rossa
rimase sempre tra le ambizioni scolastiche non esaudite di quegli anni.
Forse era troppo scapestrata fuori dell’orario delle lezioni, e qualche suora
aveva probabilmente notato che le piaceva fare da capo-banda per le femmine nei
giochi verso i maschi e nelle battaglie che si intrecciavano tra loro durante
la ricreazione.
All’uscita di scuola, verso le 13,30,
Gioia vide subito suo padre tra i genitori che aspettavano in strada, era
proprio vicino alla grata del cancello e lei riconobbe da lontano la sua
figura, gli andò incontro sorridendo. Quando gli fu vicino, lui le prese la cartella,
allora non c’erano gli zaini d’oggi portati in spalla, e poi tese verso di lei l’altra mano per tenerla accanto a sé durante
il tragitto di ritorno.
Gioia vide quella mano che si protendeva
verso di lei. Era un gesto che si ripeteva come sempre ogni giorno, ma quella
volta le sembrò quasi di vederla per la prima volta, si sorprese a constatare
che era grande, rassicurante, così indugiò ad osservarla, a immaginarne il
calore prima ancora di sentirlo, in quella rigida giornata di inverno.
Gioia conosceva a mena dito il tragitto
per tornare a casa, avrebbe potuto fare da sola quel pezzo di strada, sicura
che, nonostante il percorso non lineare, avrebbe raggiunto la sua abitazione.
Anni dopo, Gioia ricordava bene che quel
giorno lei e suo padre non erano tornati a casa in fretta né immediatamente. Fecero un giro più largo fino alla piazza che
sorgeva al termine del vialone, nella quale non aveva motivo di andare durante
l’anno. Da grande, dopo gli studi universitari di giurisprudenza, quando aveva
cominciato a frequentare il Tribunale che avrebbero costruito proprio lì, aveva
constatato che, diversamente dai suoi ricordi, quella grande piazza era
diventata un immenso parcheggio per le auto di avvocati, loro clienti, utenti
indaffarati della giustizia.
Però, a quel tempo, le macchine non erano
così frequenti in quella piazza e soprattutto, per i notevoli spazi che
offriva, c’era l’usanza di adibirla ai festeggiamenti natalizi: lo spazio era
concesso ai venditori ambulanti di oggetti natalizi, alle bancarelle dove si
preparavano “bombe” alle crema, oppure “mele stregate”, ricoperte di
cioccolato, oppure si confezionava lo zucchero filato.
Il padre non era di molte parole e,
quando la portava in quel luogo, si limitava a far notare a Gioia una presenza
insolita in prossimità delle feste natalizie, quella degli “zampognari” che
scendevano nell’occasione dall’Abruzzo, con i loro strumenti rudimentali e con
i loro strani abbigliamenti costruiti sempre con le pelli di animali, e
soprattutto con le loro musiche di altri tempi.
Ma Gioia, nonostante le poche parole del
padre, era certa che, in quella piazza, ci fosse un’altra presenza importante,
anche se non le era mai riuscito di averne qualche conferma. Non si vedeva mai, certo, ma di sicuro era
proprio lì che la befana bazzicava sin dai primi del mese per rifornirsi dei
giocattoli che poi, quella notte del 6 gennaio, portava ai bimbi, buoni come
lei. Del resto, le era parso, seppure solo qualche anno dopo, di averne una
prova certa, quando ebbe l’impressione che una bambola, portatale dalla befana
nella notte dei regali, fosse la stessa che aveva visto esposta su una
bancarella di quella piazza non lontana.
Ernesto teneva Gioia per mano, mentre la
accompagnava tra le bancarelle, timoroso che si allontanasse da lui e magari si
perdesse tra la gente indaffarata, e la bimba ne approfittava per osservare in
silenzio le leccornie, i pupazzi, gli addobbi con cui avrebbe voluto
confezionare a casa l’albero. Dai tendoni posti sulle bancarelle, pendevano
pupazzi raffiguranti la befana, tante piccole scope, ma anche statuine di
natale, palloncini azzurri e gialli, mentre intorno si sentiva un profumo di
ciambelle fritte.
Negli anni a venire, per quanto durante
le feste di natale la piazza fosse sempre destinata almeno in parte ad ospitare
bancarelle e zampognari, non avrebbe mai detto che si trattava dello stesso
luogo che aveva attraversato da bambina, quando indugiava a guardare lo
zucchero filante che si scioglieva sui visi di alcuni bambini e quando altri,
pure più piccoli di lei, lasciavano la presa dei loro genitori e giravano di
corsa, tenendo in mano palloncini a forma di babbo natale.
Gioia, da grande, non dimenticò che
quel giorno, mentre era ferma davanti ad una bancarella, si era sentita tirare
per mano da suo padre. Senza una precisa ragione, guardò in cielo e notò una
macchia colorata a forma di rombo che scendeva di colpo a terra, portandosi
dietro una lunga coda di piccoli anelli di carta. Un bambino aveva forse perso
quell’aquilone che, privo di guida, sbandava di qua e di là tra gli edifici, e
stava precipitando a terra.
La bimba sentì allora suo padre
stringerle più forte la mano, e non ne capì subito il motivo; poi Ernesto prese
a correre all’improvviso senza dirle nulla quasi trascinando la piccola nella
direzione in cui stava precipitando l’aquilone: non si dissero praticamente nulla mentre correvano insieme, ma si
scambiarono un gran sorriso di intesa.
Gioia, con le sue piccole gambe, faceva fatica
a seguire il padre ma ci metteva tutta la forza possibile, tre passi piccoli
ogni passo grande, perché non voleva rimanere indietro per nulla al mondo. Le
venne un grande fiatone, e quasi le mancava il respiro, sobbalzò infine per un
istante quando giunsero a destinazione, nel punto in cui l’aquilone era caduto.
Era ormai distante la piazza con le bancarelle, e non si sentiva più il rumore
della calca.
Ernesto si chinò a raccogliere il povero
aquilone. A Gioia sembrò che avesse l’aspetto
di un gabbiano ferito e stanco, le sue ali erano spezzate e incapaci di
sostenerne il volo. Vide che suo padre lo toccava con cura quasi a saggiarne le
ferite e dal suo sguardo rassicurante comprese che poteva tornare a volare. Poi
rientrarono a casa in gran fetta e non le parve di aver mai fatto quel tragitto
così di buona lena e in breve tempo.
Ernesto condusse Gioia nel suo
ripostiglio dove aveva raccolto degli arnesi con cui si dedicava a piccoli
lavori casalinghi di restauro: il pomeriggio trascorse intenso a riparare l’aquilone
ferito. Gioia, seguendone le pazienti indicazioni, porgeva al padre la colla,
le stecche di canna, i pezzi di cartone, che lui richiedeva: il padre armeggiava
con perizia compiva gesti da esperto chirurgo, curando le ferite, riparando i
danni dell’aquilone rovinatosi nella caduta. Quello stesso pomeriggio, in poco
tempo il ferito poteva dirsi guarito e l’aquilone era pronto per una nuova
esaltante impresa di volo.
Fu allora che Ernesto porse a Gioia
l’aquilone restaurato, glielo affidò nelle piccole manine e la condusse
nuovamente in strada, davanti alla loro casa, entrando nel cortile adiacente
all’abitazione. La piccola Gioia si sentì la madrina di quell’evento. Il padre
era stato davvero bravo, aveva riparato le ferite in poco tempo, ed ora l’aquilone
era più possente che mai, non le era mai capitato di vederne uno così bello ed
agile, sarebbe stato capace di volare per sempre.
Bastò tenerlo sollevato un attimo, perché
il vento della sera lo alzasse rapidamente in cielo, sempre più in alto. In un
attimo, si sollevò rapidamente, prese quota, si diresse al di sopra di tutti i
palazzi, diritto verso le poche nuvole che, nelle silenziose ore della sera,
offuscavano il cielo.
Allora suo padre passò a Gioia il lungo
filo che legava l’aquilone e lei sentì un brivido, per un attimo temette di
perdere la presa, di lasciarsi scappare il piccolo oggetto, ormai dotato di forza
propria, e si sforzò di stringerlo forte con la piccola mano. Tenuto stretto,
attraverso il lungo filo di nylon, ormai completamente teso, Gioia si accorse che l'aquilone, silenzioso, così in alto, si era
fermato in cielo, mentre solo la coda di anelli di carta colorata scodinzolava
allegramente. Il rosso e il blu fluttuavano sorridenti e felici in aria. Non
poté mai dimenticare che, quel giorno, rimase accanto al padre per un tempo che
non seppe calcolare, con il naso all'insù, a osservare il suo aquilone.
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