Il
bisogno di fermarsi, oltre la fretta del vivere, il rumore del quotidiano, e la
sensazione di precarietà che accompagna la nostra vita: occorre dare spazio
alle voci di dentro. Ricordando le parole di Eugenio
Montale
di Paolo
Brondi
Quale
il motivo della difficoltà a far posto alle favole e alla poesia nella nostra
quotidianità? È la domanda che lo stesso Montale si faceva nel discorso
pronunciato al momento della consegna del premio Nobel per la letteratura nel
1975: «Sotto lo sfondo cupo dell’attuale civiltà del benessere le
arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità.
Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato.
Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato.
Da
qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un’esibizione non
necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera
una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che
sia. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto
della più discreta delle arti, la poesia?»
Dopo
42 anni sono mutate le negatività enunciate da Montale? Pare di no ché anzi si
è ancora più affermato un gusto dell’epoca la cui logica interna è quella del
“troppo”. Il “troppo” è presente in tutte le dimensioni. Nella coscienza
individuale: tutti credono di sapere tutto, di poter fare tutto. Nella
collettività: si fanno scelte all’insegna dell’usa e getta, tutto è dominato
dalla fretta, dal consumo del tempo in attesa di improbabili felicità. Negli
operatori culturali e nelle scelte politico-amministrative: si moltiplicano le
occasioni delle informazioni, delle mostre, degli spettacoli, delle gallerie
con la conseguenza di omogeneizzare tutto. Più rumore che comunicazione.
È
una logica, quella del troppo, che toglie spazio al silenzio, alla meditazione
e genera sofferenza nei giovani: essa “ci fa smarrire all’interno di una
società non più aperta al dialogo, all’ascolto, alla fantasia, ma al contrario
favorevole alla passività, all’indifferenza, alla corruzione”.
E la
società che si struttura su una tale logica sottrae l’esperienza, dal bambino
agli adulti, del coinvolgimento nel tempo della fiaba, di una dimensione che è
non solo incanto e piacere, ma è preludio alla conoscenza.
È
raro trovare riparo alla forza delle efficienza, della razionalità
tecnocratica, mediatico- pubblicitaria, nella quiete di ore scaldate dalla voce
di un nonno, di tanti nonni e padri narranti favole belle. Conviene dunque
andare contro corrente per contrastare le cecità della storia verso sentimenti
sani e fecondi. Non con la coscienza di nostalgici alla ricerca del tempo
perduto, ma con il richiamare l’attenzione su una straordinaria figura del
tempo che è la durata!
Solo
ciò che dura, oltre le aporie del mondo, oltre la chiacchiera, ha valore; è
cultura, scienza, arte, poesia e sa promanare da sé principi, morale,
sentimenti validi oltre la negatività del tempo che va. Lo provano le favole,
pur antiche, che, raccontate per voce diretta, e non televisiva, attirano
stuoli di bambini, ma anche di adulti sorpresi e lieti di risentire una
tenerezza forse mai incrinata. Lo dimostrano voci che di mille secoli vincono
il silenzio:
Quale
una stirpe di foglie
Tale
è anche di uomini
Le
foglie, alcune il vento
Ne
riversa a terra
Altre
la selva rigogliosa
Ne
produce
E
sopraggiunge la primavera
Così
è la stirpe degli uomini
Una
germoglia, una si estingue
Immagini,
forme, similitudini: parrebbero scritte da poco, invece sono state cantate da
un aedo dolcissimo, Omero, vissuto migliaia di anni fa nell’VIII o VII sec
a.C.!
Il
tempo “durata” che oggi sembra negato perfino negli ambienti educativi, le
scuole, ove al posto dei valori perenni rappresentati dalla letteratura greca,
latina, da Dante e i mondi della Divina Commedia si
celebra, con le lingue moderne e la robotica, l’assillo e l’efficienza dei
tempi, merita urgenti e profonde rivisitazioni per ridonare alle menti dei
fanciulli, dei giovani, di tutti noi la consapevolezza dell’essere uomo e per
riscuotere le fibre della vitalità profonda dal loro torpore.
Alle volte il troppo è preludio a una conoscenza. Diversa senza dubbio, ma una conoscenza. È problematico a mio avviso fossilizzarsi in un passato o in un presente. Il futuro per certi versi è una frontiera obbligata...
RispondiElimina