Le
sbarre, la disperazione, lo studio. Quegli occhi pieni di felicità dopo un esame
superato
di
Cristina Podestà
Nell’estate
del 2015, ero commissario esterno di italiano per l'esame di stato anche nelle
carceri di Massa. Mai entrata in precedenza in un carcere, e il primo giorno rimasi
perplessa. Controlli, deposito di borse, pc, cellulare, il personale molto
serio ed educato ma distante, gli alunni adulti (chi più chi meno), diffidenti,
insomma un ambiente strano.
I
colleghi interni ci tenevano a far capire agli esterni che era tutto normale e
sotto controllo ma io, e non solo io, non ero serena. Poi, nei giorni a
seguire, tutto si sciolse. E, soprattutto gli alunni carcerati ci raccontarono
le loro esperienze di vita travagliata, le loro colpe, i nuovi progetti per
quando fossero usciti da lì.
Uno
di loro in particolare, il giorno della prova orale, piangeva forte. Mi
avvicinai e lui, chino sulle sbarre della finestra, rispose alle mie domande
dicendo che, se non avesse superato la prova in modo brillante, avrebbe perso
la pur minima fiducia che la figlia adolescente aveva riposto in lui e che era
stata proprio la ragazza a spronarlo allo studio.
Dalla
stanzetta guardavo fuori. E lui, accanto a me, in lacrime, di una sofferenza a
me sconosciuta ma reale e palpabile. L'esame andò abbastanza bene. Lui ci
ringraziò fino ad essere invadente, nei suoi occhi chiari lessi la felicità.
Massimiliano,
così si chiamava lo studente carcerato, mentre si appoggiava alle inferriate,
sembrava volerle torcere con la forza della disperazione.
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