Persino nel pensiero
giuridico, che dovrebbe essere più attento alla concretezza del soggetto, si assiste ad una rappresentazione del corpo
svincolata dalla sua specificità individuale
di Paolo Brondi
“La fine del XX secolo segna la svolta, per il
pensiero giuridico, di scoprire il corpo, mentre il sistema di pensiero in cui
si muoveva, era stato costruito duemila anni prima, perché non se ne parlasse e
perché il giurista abbandonando la sacralità di questa cosa al prete e la sua
trivialità al medico, potesse ricostruire un'umanità popolata di persone,
ovvero di creature giuridiche, cioè create dal giurista", così osservava il
grande antropologo Luis Dumont (Homo Hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Milano Adelphi, 1991).
In realtà, nonostante il progressivo
sviluppo del pensiero giuridico e in genere del sapere, si assiste ad una “decostruzione
del corpo”, se è vero che ancora oggi vi è la sua identificazione per mezzo delle
immagini esibite attraverso la moda, la pubblicità erotica, i media: la velina
del corpo.
Nella stessa dimensione giuridica
non è il corpo al centro dell'attenzione del giurista, ma la sua astrazione,
espressa con la voce persona: voce che non denota la concretezza della realtà umana
ma la sua rappresentazione, l'immagine filosofica e giuridica di uomo. La
virtualità domina nel mondo dei diritti, fatta di modi, modelli, figure; di
parole come “fattispecie” che significa “immagine del fatto” e che quindi
induce a cogliere più la forma che la sostanza degli accadimenti reali, perfino
quelli della nascita e della morte: è il dato sociale che fa acquistare al
corpo nato vivo, o morto, la qualità di persona e quindi la sua rilevanza giuridica.
Perché il mondo del giurista non
appaia una realtà metafisica e il corpo rientri nelle sue competenze, occorre
riconsegnare al corpo e alle sue proiezioni, il gesto, la parola, lo scrivere,
il disegnare, la sua tangibilità, la sua dattilità, la sua carnalità, rispetto
alla virtualità del suo esistere.
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