La
natura può avere una forza distruttiva, ma sono gli uomini che spesso non sanno
contrastarla e diventano responsabili di tante rovine
di Paolo Brondi
Spesso la distruzione lavora meglio
di qualsiasi muratore. Mentre un tempo l'elevazione vulcanica o la lenta
stratificazione hanno innalzato la montagna verso l'alto, ora accade il
contrario: pioggia o neve, decomposizione e declivio, disgregazione chimica,
l'effetto del lento imporsi della vegetazione, o ripetute scosse di terremoto,
contribuiscono a precipitare in basso parti della sommità e ad alterare la
forma del suolo e tutto ciò che in esso esiste.
Ciò che dirige una costruzione verso
l'alto è la volontà umana. Ciò che invece conferisce il suo aspetto attuale è
la forza meccanica della natura, forza corrosiva e distruttiva che trascina
verso il basso. Il significato della distruzione deriva, non solo dalla natura,
ma pure dall'agire positivo dell'uomo e spesso dalla sua passività.
Sono gli uomini che lasciano andare
in rovina l'opera umana, specie quando ricevuta in eredità dal passato, o per
mera incuria, o, se si tratta di opera neo costruita, per maldestra giacitura
in prossimità di latente pericolo. Fra il non ancora e il non più si situa quel
rovesciamento dell'ordine consueto quale un ritorno alla buona madre, come
Goethe definisce la natura.
E quando la rovina non è
immediatamente distruttiva, paradossalmente, la natura, si riappropria dell'opera
come accade ad alcune rovine urbane che sono ancora abitate, o a una
costruzione molto antica, in aperta campagna, ove si nota spesso una vera e
propria uguaglianza di colore con le tonalità del terreno circostante.
Gli influssi della pioggia o dei raggi
del sole, della vegetazione, del caldo e del freddo assimilano la costruzione
al colore della campagna, abbandonata al medesimo destino. Questi influssi
riconducono il primitivo antitetico risalto dell'edificio alla pacifica unità
di una coappartenenza. Sotto quest'aspetto la rovina reca l'impronta della
pace.
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