Il Covid-19 ha modificato i modelli di comunicazione. Dal narcisismo dei social al senso di appartenenza ad una comunità
(Angelo Perrone) Anche loro,
i selfie, sono scesi in campo contro il coronavirus. In aggiunta a mascherine,
guanti, distanziamento sociale, reparti di terapia intensiva, e quant’altro. La
potenza delle immagini per contrastare la pandemia. Muta di senso un simbolo
della società contemporanea? Se ne scopre una funzione sociale? Cambia in
generale il nostro modo di comunicare?
Proprio gli autoscatti, per
esempio, sono diventati un fenomeno social a sostegno dell’appello di tante
donne, e uomini, per rivendicare una maggiore presenza femminile nella gestione
del contrasto al virus. «Abbiamo lottato, sopportato. Subìto, sperato e
disperato. In questa crisi ci siamo sempre state, eccoci ancora qui: in prima
linea, come e forse più di voi uomini. Vi abbiamo dato ascolto, ora basta:
dateci voce», hanno spiegato i promotori, nella lettera al presidente Conte e a
Vittorio Colao, responsabile della task force governativa.
Immagini di infermiere,
medici, personale ausiliario, negli ospedali, in corsia, o nei momenti di
riposo. Volti singoli o di gruppo, rigorosamente in camice e con la mascherina,
la divisa di chi oggi è più impegnato a contrastare il virus. Un messaggio condiviso
da tanti, che a loro volta hanno diffuso altre immagini analoghe con l’hastag #datecivoce. Per inciso, è
preannunciato, in risposta a questa mobilitazione, un rafforzamento della
presenza femminile sia nella task force di Colao che presso la Protezione
civile.
Si assiste in questo caso all’uso
del selfie per uno scopo collettivo,
com’è la valorizzazione del ruolo pubblico delle donne, nell’interesse di tutta
la società. Non è certamente l’unico caso, solo il più recente, perché, per
rimanere alla sanità, l’intero tragitto del Covid-19, dallo scoppio della
pandemia alla attuale fase-2 di convivenza forzata, è contrassegnato da
immagini dello stesso tipo, scattate da tutti, sanitari e cittadini qualsiasi.
Ciascuno di noi ha fermato così qualche istante della sua esperienza. L’isolamento
nelle case, il cambiamento delle abitudini, l’allegria tenace manifestata sui
balconi, la cura e l’assistenza verso i più deboli o bisognosi, in famiglia e
fuori.
Un movimento trasversale e globale,
incentrato sul coinvolgimento nel Covid-19 e sull’impegno comune a
sconfiggerlo. Le immagini raccontano la trasformazione repentina della realtà
italiana e le implicazioni personali. Non manca infatti, nelle fotografie, la
storia dei singoli e delle loro emozioni. La fatica nel lavoro, il lutto per la
perdita dei cari, la dedizione nella cura, la continuità nello svolgimento dei
servizi essenziali.
Le vicende non hanno il
sapore dell’esibizione narcisistica, della rappresentazione solitaria di eventi
che non interessano a nessuno, sono pezzi di un racconto più ampio che ci
riguarda da vicino. Un’immagine rimanda all’altra, quasi vi fosse un filo a
collegarle in un mosaico di piccole tessere. Tanti sono i volti privi di nome che
diventano familiari perché ne riconosciamo (e condividiamo) le emozioni.
L’immagine al tempo del
Covid-19 in gran parte cambia di contenuti, e si direbbe che persegua altri scopi.
D’istinto, senza un calcolo preciso. Perché è spontaneo concentrarsi su questi
momenti. E proviamo esitazione a scegliere, come facevamo una volta, qualcosa
di “leggero“, distraente. Di cui magari avremmo anche bisogno. C’è qui una
diversa rappresentazione della persona e delle azioni che sovverte i canoni abituali,
e si riflette in tutti i campi. A cominciare dalla comunicazione politica. I
più sorpresi e confusi sono quei politici che maggiormente hanno fatto leva sul
contatto diretto con le persone, sulla presenza fisica, per ricercare consensi.
Si avverte una frattura, che sottolinea l’incapacità dei populisti di ogni
parte del mondo, da Donald Trump al Boris Johnson, al nostro Matteo Salvini, di
intercettare gli umori sollecitati dal virus.
Ma tutto ciò non dipende
solo dal fatto che è venuto a mancare, a causa della pandemia, il contatto
diretto con la gente su cui si è sempre basato il populismo di ogni colore.
Anche se i divieti antipandemia hanno certo vanificato il cardine di quel
messaggio. Conta anche, ed è determinante, il significato che, in quel
contesto, è attribuito al rapporto con la folla.
Un politico come Matteo
Salvini, onnipresente tra la gente e sugli schermi, alla costante ricerca di
occasioni, anche le più banali, per il bagno di folla, si trova
irrimediabilmente lontano dal circuito delle emozioni odierne, quasi corpo
estraneo. Sono di altra natura quelle da lui coltivate.
In quel metodo, non è tanto opinabile
il luogo dove fare politica, la piazza piuttosto che la sede istituzionale (ché
anzi il rapporto con le persone è connaturato alla nozione di democrazia), ma
il modo. L’immersione continua nei riti della quotidianità più banale ed
insignificante, la nutella da spalmare, gli svaghi al Papeete, le ubriacature
da selfie al centro di ogni comizio, diventa alla fine stordente e alienante.
Si comprende come questo personale politico sia fuori registro in un mondo che
mostra altre sensibilità.
Un solco profondo separa le vecchie
rappresentazioni da quelle odierne, così drammatiche. Le immagini che
accompagnano il Covid-19, i selfie di oggi, raccontano la fatica, l’impegno, la
sofferenza, non l’euforia autocelebrativa, l’esaltazione fuorviante
dell’incontro eccitante con il politico famoso da condividere orgogliosamente sui
social.
Frana di colpo, nella
dimensione pubblica e in quella privatissima, il mito della rappresentazione di
sé secondo canoni esteriori, siano essi la fama di un istante o la bellezza
esteriore, gli elementi dell’irresistibile fascino sociale. Cala il richiamo
degli influencer, che infatti per sopravvivere si riciclano in (lodevoli) battaglie
di solidarietà con i più deboli e fragili. Anche loro sollecitati ad una necessaria
conversione, imposta dal Covid. Negli scatti del coronavirus, non c’è
ossessione della propria immagine, o culto dell’apparenza, fragili ancoraggi
del tempo che fu, ormai sovvertito dal virus.
Le immagini che ci
rappresentano durante l’epidemia documentano il distanziamento sociale a cui
siamo sottoposti, ma ne capovolgono il senso mostrandoci una diversa dimensione
del rapporto con gli altri. Non più segnata dalle misure che ci separano, ma
dagli scopi che perseguiamo. C’è una distanza che ci allontana ed un’altra che
ci fa sentire vicini e uniti. C’è soprattutto un modo di stare accanto che si
riempie di significati e di scopi condivisi.
Si moltiplicano fotografie
di uomini, donne, bambini, ma anche collettive: gruppi di soggetti, vicini tra
loro, nonostante i divieti. Eppure non percepiamo il senso di trasgressione, la
disobbedienza rispetto alle regole anti-pandemia. Ci rassicura il fatto che
ritraggano membri della stessa famiglia, colleghi di lavoro, vicini di casa, magari
sconosciuti che scoprono quanto hanno in comune.
L’essere insieme
da parte di chi si impegna contro la pandemia (ciascuno a suo modo e senza
trascurare le cautele) ci appare plausibile, giustificato dagli intenti
perseguiti, perché prevale lo scopo collettivo, non puramente individualistico,
a differenza delle situazioni, pur legittime e necessarie, di svago o
ricreative. Questi ritratti ci raccontano che il contatto diretto con le
persone è sempre preziosissimo; ma più grave della mancanza della presenza
fisica è la sua banalizzazione, il suo essere priva di senso e di prospettive.
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